Troy e l'Iliade | |
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Il film è costruito come tipico polpettone per il grosso pubblico, intessuto di dialoghi nello stile semplificato e retorico dei kolossal storico-classici anni cinquanta, ma gradevolmente pieno di eccezionali e realistici effetti visivi e sonori, amplificati dagli impianti delle moderne sale (le visioni aeree della splendida spiaggia, del castello, dell’enorme estensione dell’esercito, delle navi, il clangore impressionante delle armi, gli applausi ottenuti battendo gli scudi), e non è privo di altri meriti: rinnova il piacere della poesia epica e ci ricorda comunque la grandezza di Omero. Nell’entusiastico contatto da scolaro con le traduzioni di Vincenzo Monti (Iliade) e del Pindemonte (Odissea) e poi nella parziale rilettura liceale in greco, non ero un "corizonte" (separatista): ero del tutto persuaso che Omero fosse unico autore dei due poemi, per via della qualità uniformemente così alta della poesia. Epoche diverse, diversa maturità, diversa filosofia di vita, forse, ma stretta vicinanza di intensità artistica, di valori sentimentali. In Omero sentiamo, a dieci o undici secoli di distanza, anticipate tutte le qualità che hanno permeato la cultura della Grecia classica; sentiamo che da lì viene direttamente il nostro mondo interiore, nei suoi pregi e nelle sue contraddizioni, avvertiamo una radicata affinità di gusto e di affetti. Vi sono descritti, con nitore e ricchezza, aspetti dell’animo umano con sfumature vicinissime a quelle dell’universo psicologico e sentimentale di oggi. Violenza, crudeltà, vendetta si accendono in certi uomini più che in altri (ed emergono soprattutto sul terreno militare, causa ed effetto necessari alla sopravvivenza in guerra, in una spirale viziosa che si perpetua nei secoli e non si trova modo di interrompere), ma c’erano allora e ci sono ora anche generosità, pietà, amicizia, fedeltà, ospitalità; amore come argomento portante delle scelte e del comportamento. Sentimenti espressi nei poemi omerici con profondità e finezza del tutto attuali, con un’affinità che non esiste in altre culture antiche. Il film concilia spettacolarità e facilità di comprensione a rispetto sostanziale, pur nella semplificazione, della storia omerica, con una miracolosa capacità di riproduzione delle immagini infantili che la prima lettura dell’Iliade produce: la fortezza scoscesa e meravigliosa di Troia, il mare antistante, le armature, il cavallo gigantesco di legno, le stesse fisionomie dei personaggi, attori giustissimi nel loro ruolo prima di tutto per l’aspetto fisico. Da Achille, bello e, per definizione nei versi iniziali, iracondo, al nobile Ettore, per il quale tutti gli spettatori (o lettori dell’Iliade) parteggiano, da Patroclo, riuscitissima figura sul modello di un moderno giovanotto palestrato e tonico ma effeminato – per alludere all’amicizia particolare con Achille – all’incerto e tenue Paride, al commovente Priamo per il quale è stato scomodato Peter O’Toole, ai personaggi femminili, Elena, Ecuba e Briseide, tutti credibili e aderenti all’immaginario elementare di un bambino o di un adulto che vuole tornare bambino seguendo la ricerca del piacere secondo Freud. Ha il merito, il film, di trasportare in una sensibilità odierna modi e costumi antichi, facendo sentire l’epoca della guerra di Troia come attuale attraverso un linguaggio senza forzature, proprio perché il mondo psicologico di Omero non è dissimile dal nostro. Un aspetto della modernizzazione realizzata dal film, che si deve barcamenare fra storia verosimile e ossequio al mito, è la scomparsa degli dei, che restano fuori dalle immagini, giustamente confinati nelle parole, nelle ipotesi e nella fantasie dei personaggi umani che li invocano, li temono, dubitano del loro intervento o della loro stessa esistenza o li ignorano e offendono, rispettosi alcuni, miscredenti o addirittura blasfemi altri, in tutto il ventaglio di oscillazioni fra speranza e scetticismo proprio come ora. La sola Teti fa una fugace apparizione come in sogno, impersonata da un’invecchiata ma carismatica Julie Christie. Ho ceduto alla fine. Pur ammirato dalla potente scena in cui Paride, rispettando la versione tradizionale, attraversa con la freccia (precisione chirurgica) il tallone vulnerabile di Achille-Bratt Pitt, sono stato assalito dalla tentazione ironica: avrei voluto per una volta cambiare la solenne colonna sonora nelle note dello stornello romanesco "Achille era ’n granne condottiero / perché la madre l’avea immunizzato / bagnandolo ner fiume onn’era nato / lo rese forte come acciaio e fero. / Co ’sto fero e co ‘sto acciaio / pe ’l nemico fu ’n gran guaio / finché un cojoneee / ie diede ’na frecciataaa ......ner talloneee". |
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Francesco Dallera |