Automobili

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Considerazioni nell'anno 2000

La strepitosa bellissima linea della Audi A6 berlina del ‘98, con tutti i suoi derivati (come la TT coupè e Roadster, ancora più graziose per chi preferisce gli oggetti piccoli) conferma una verità ovvia, condensata nella celebre sintesi di Barthes "Le automobili sono le cattedrali gotiche del nostro tempo". Di fronte ad esempi di design così riusciti si è più consenzienti ad abbandonare il rispetto per l’arte consacrata dal tempo abbracciando l’equivalenza che l’espressione artistica può avere oggi in relazione al ruolo dell’ispirazione, della committenza e dello sforzo creativo e nei suoi rapporti con la sensibilità comune e l’immaginario collettivo della nostra epoca. Come, per la musica, il parallelo attuale con le cantate, le sinfonie o le opere dei secoli passati, non può essere cercato nella musica cosiddetta colta di autori contemporanei -- creata per una ristretta cerchia di fruitori un po’ snob -- così il corrispondente attuale delle grandi chiese medioevali -- alla cui costruzione partecipava emotivamente e spesso manualmente tutta la popolazione coinvolta nel sentimento religioso -- non è certo l’architettura d’elite e nemmeno l’arte visiva delle mostre o dei musei moderni.

Alcuni degli ultimi modelli di auto sembrano scuotersi da un grigio periodo in cui l’estetica inclinava verso la parificazione e l’anonimato. La Porsche riesce addirittura a fondere un ben leggibile, nitido carattere di continuità con la tradizione e un’innovazione propositiva, proseguendo un discorso estetico riconoscibile e aprendo nuove strade. Una critica obbiettiva contemporanea in questo settore è particolarmente difficile, influenzata com’è dal condizionamento della moda e dai coivolgimenti personali, legati all’età e alle esperienze, così strettamente connesse a un bene di consumo quotidiano con implicazioni complesse. Però nessuno può negare che negli anni trenta e cinquanta, la personalità delle automobili era molto più marcata. Se guidarle ora, per l’arretratezza tecnica rispetto agli standard odierni, darebbe l’idea di cavalcare dinosauri, l’aspetto emozionale, anche solo per le nettissime differenze nella linea e nella impostazione tecnica fra i modelli di marche diverse, doveva essere proporzionalmente ben più intenso, e la pericolosità intrinseca delle macchine era compensata dalla modestia del traffico e dalle velocità più basse, oltre che da una maggiore spensieratezza sull’argomento. L’aspetto grasso e bombato, ma armonico e compiuto, originale, inconfondibile soprattutto, di auto come la Cadillac Eldorado dei primi anni cinquanta, conosciuta più dai modellini Dinky Toys e dalle fotografie o dal cinema, visto che da noi non circolava, e la Buick Roadmaster, resa nota dal film Rain Man, non sono confrontabili sul piano della personalità stilistica con le opache per quanto sofisticate carrozzerie degli anni settanta e ottanta, testimonianze di una corsa all’anonimato con poche eccezioni, tanto che si finiva quasi col preferire le auto più brutte, purché almeno avessero qualche tratto distintivo. La logica del profitto, la concorrenzialità sempre più esasperata e, negli ultimi anni, le joint-venture, le fusioni industriali, gli accorpamenti, i progetti in comune, la necessità di risparmio sui disegni computerizzati e forse una classe di manager che, in parte per necessità e pressioni esterne, in parte per proprio personale impegno, hanno fatto a gara per essere banali, poveri di spazi romantici nel loro immaginario, tutti questi fattori hanno omogeneizzato le automobili, soprattutto proprio sotto il profilo visivo; conseguenza inesorabile, visto che sotto la pelle di una Jaguar o di una Aston Martin c’è l’ossatura di una Ford e che Fiat Peugeot Citroen possono condividere pianale e organi meccanici e che un certo modello di piccola Cadillac è una Opel camuffata da un trattamento cosmetico all’americana. Dai tardi anni sessanta in poi le auto hanno iniziato ad avere linee anonime, fatto salvo per alcune sportive come la Miura e qualche Ferrari di Pininfarina, tendenti però a progressivo appiattimento con prevalenza delle linee rette sulle sontuose o gustose linee curve della precedente produzione, in una apparente ricerca dell’insipido e dell’uguale. Uno dei pochissimi grandi esempi negli anni 60 di linea intramontabile e di miracoloso disegno, è stata la Jaguar E, che sposa purezza senza tempo ad originalità e riesce a conciliare quella semplicità ed essenzialità che gli inglesi invidiavano agli stilisti italiani a tratti peculiari dello stile britannico, per cui al primo sguardo si riconosce come un’automobile inglese. Immessa sul mercato nel 1961, era però dunque un prodotto preparato nel decennio precedente. Del resto un’altra immortale con lo stesso carattere estetico di oggetto fuori dal tempo e dalle mode, la Citroen DS, è di quattro anni prima. Negli anni cinquanta, gli esempi di automobili memorabili sul piano visivo, erano veramente numerosi. In Italia il design era limpido e senza fronzoli, rigoroso, come nelle splendide Aurelia spider e coupè (il cui motore a V, tra l’altro, è stato il progenitore di tutti i motori moderni brillanti, inclusi quelli di formula 1 per molti anni) e in alcune Ferrari; negli USA era segnato, con risultati non sempre felici, dalla tipica opulenza (trascinata curiosamente senza interruzione ai nostri giorni da alcuni modelli di moto della Harley Davidson); in Germania, sull’onda degli spunti prebellici di Ferdinand Porsche, di Mercedes e di BMW, da un timbro stilistico riconoscibile anche nelle produzioni attuali, con un indefinibile tratto di sicurezza, di robustezza e quasi di arroganza; l’Inghilterra poi è stata in quel periodo la patria delle creature più fantasiose e visivamente inventive e divertenti: soprattutto nelle piccole sportive, spesso a prima vista sgraziate se utilizziamo la simmetria e la regolarità come parametri, i designers inglesi del tempo si sono sbizzarriti con estro e libertà, facendo uscire dal cappello a cilindro la MG A (la TD e TF , per quanto fascinose per un anglofilo, erano disegni antiquati, degli anni trenta o prima), la Triumph TR2 e TR3, le Austin Healey, per non parlare della rara Jowett Jupiter, che ha la sua consacrazione letteraria nelle prime pagine de Il lungo Addio, dove Chandler le dedica parole di sviscerata ammirazione. I modelli successivi (la MG B, la Triumph TR 4, disegnata da un italiano in stile inglese e, peggio ancora, le TR dopo la 4) mostrano un progressivo decadimento, una perdita di coerenza stilistica per ibridazione con lo stile italiano, o almeno una perdita di personalità e identità. Se vogliamo azzardare un’interpretazione del fenomeno, il decadimento della forza trainante dell’industria britannica in quegli anni è il verosimile substrato di questo abbassamento estetico, di questo calo di indipendenza. La sola alternativa era, con un’operazione di pura conservazione, portare avanti un prodotto immutato come hanno scelto di fare la Morgan o la Catheram (replicando la Lotus Seven); un rinnovamento vitale e favorevole era precluso.

Le auto degli anni cinquanta avevano un’espressione: un naso, una bocca, una grinta più o meno cattiva; quelle inglesi facevano addirittura smorfie. Veniva naturale dar loro soprannomi: "frog-eye", occhi di rana, per la piccola Austin Healey Sprite;"Aunty" per un modello di berlina Austin con un aspetto da grassoccia zietta paciosa e famigliare. Del resto la Volkswagen ha avuto il suo "Maggiolino", proprio per l’evidente somiglianza con un coleottero. "Gull wing"era la Mercedes 300SL con le portiere che si aprivano verso l’alto, "boat-tail" si chiamavano certe code che riecheggiavano quelle dei battelli, ultimo esempio delle quali, pur in forma addomesticata e aggiornata, la prima serie del Duetto Alfa Romeo (quello del film Il Laureato). Una Volvo dei primi anni cinquanta aveva come indicatore direzionale("freccia") un curioso trabiccolo a T sul tetto, che era conosciuto come "cucù sul cocuzzolo". L’aggeggio ha avuto vita breve, presto reso illegale dalle leggi uniformanti sul traffico degli Enti di Motorizzazione, inclini a regolamentare tutto secondo un principio che i burocrati fanno valere in ogni luogo, occupando quanto più spazio possono e riducendo ogni angolo di inventiva. La stessa auto aveva fanalini posteriori a forma di pallottola chiamati "i capezzoli della signorina". Gli Inglesi, per non abbandonare questo gusto di personalizzare le auto con nomignoli suggeriti dall’aspetto, si aggrappano ad ogni appiglio anche più tardi: negli anni 70 indicano per esempio la Porche 911 con alettone posteriore come Duck-tail Porsche (coda di anitra); lo stesso alettone è chiamato in altri paesi "vassoio da thè" o "vaschetta per uccelli", tanto risultava invitante dappertutto l’occasione di un particolare originale. Ma le occasioni per i soprannomi sono sempre meno numerose, le auto nei 2-3 decenni passati si sono uniformate fra loro e nei vari paesi del mondo. Le autostrade di tutta Europa offrono un paesaggio di vetture che non si modifica se si passa da un paese all’altro e l’America, con l’avvento delle giapponesi, si sta avvicinando, anche se qualche povero immigrato che guida i mastodontici pittoreschi residuati di trenta anni fa, qualche turista sulle limousine e qualche riccone sulle Cadillac e Lincoln dei modelli più lussuosi, contribuiscono almeno a tenere alte le dimensioni. Le macchine giapponesi, che, tecnologicamente squisite e accurate, hanno invaso il mondo dopo modeste resistenze dai raffinati che ne lamentavano la scarsa classe e carenza di tradizione, sono le più anonime di tutte e sembrano aver contagiato l’ambiente, trasmettendo indifferenza e puntando su una funzionalità senza sapore. Se anni fa era divertente guardarsi intorno su strade di altri paesi per la sensazione di novità, di diversità del panorama automobilistico, ora non ci sono sorprese: la globalizzazione del mercato e l’uniformità della produzione attutiscono le differenze dovunque si vada, tranne forse in Cina e nei paesi del terzo mondo, dove non ci sono auto.

I designers delle ultime Audi offrono una sostanziale novità stilistica, un’audacia imprevista e geniale, che sottende grande maestria e cultura estetica. L’elegante intreccio di linee curve e rette, in cui vedo una citazione del Cubismo in un’elaborazione alleggerita e dolce che ne dimentica le asprezze ma ne conserva le tensioni, i magnifici tagli delle lamiere, le rotondità che si modificano ad ogni scorcio, la coerenza pur nel continuo movimento di linee, compongono un capolavoro estetico della nostra epoca. Anche la riedizione del Maggiolino è sulla stessa linea e ha la stessa riuscita, con il pretesto del richiamo al vecchio modello, a sua volta geniale e in anticipo sui tempi. La Porche Boxster è un altro grande esempio di stile, già ampiamente copiato soprattutto nella disposizione dei fari. Altri recenti modelli, che, senza avere la novità e la nitida modernità di questi esempi avanzati dell’industria tedesca, richiamano con eleganza auto del passato ( BMW Z3, Jaguar S Type, Rover 75 o, su un altro piano, meno ambizioso e con intendimenti più ruffiani anche se simpatici e riusciti, la Chrisler PT Cruiser), dimostrano nei principali gruppi automobilistici una spinta ad abbandonare la piattezza che stava distruggendo ogni differenza e originalità, il bisogno di individualizzare in qualche modo l’aspetto visivo dei prodotti affiancando alla indiscutibile evoluzione tecnica un connotato dell’immagine che li renda più definiti nel loro impatto psicologico. Speriamo che, con un nuovo calore progettuale, gli stilisti riescano, non dico a umanizzare le loro creature come avessero occhi naso e bocca (o coda), ma, nei casi migliori, come è già accaduto in molti esempi di produzione industriale dei decenni passati, automobilistica e non, a caratterizzarli come vere opere d’arte, come oggetti che, se sono nati sotto lo stimolo della vendita, hanno però costituito l’impulso per il creatore, come lo erano le chiese per gli architetti gotici o le pale d’altare per i pittori del Rinascimento o la commissione di un’opera musicale per Mozart e Da Ponte; o almeno rendere più variato e fresco il vorticare di immagini di auto, componente ormai da anni essenziale del nostro paesaggio quotidiano.

 


Francesco Dallera

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