Il Barbarossa di Vanelli |
|
|
|
In
ogni caso, tralasciando per un momento, a distanza di quasi mille anni, le
dispute storico-politiche e la polemica se sia o meno opportuna la
celebrazione dell'imperatore e guardando all'opera di Felice Vanelli come
fatto artistico, la trovo meravigliosa. Premetto
che la pittura e la scultura di oggi troppo inclini al tradizionalismo, non
mi attraggono, in linea di principio. Le innovazioni ideative, l'informale di
genio, la figurazione libera che il secolo XX ci ha offerto, mi interessano e
piacciono più del figurativo convenzionale, che nel momento attuale mi sembra
fuori tempo. La mia curiosità per una statua del Barbarossa a cavallo che si
sapeva classicheggiante era perciò limitata. Ma, appena l'ho vista, ogni
considerazione teorica è stata cancellata dall'emozione del capolavoro. La
critica sulle arti visive è, più che in altri settori, a rischio di retorica
e pseudocultura. Per questo, prima di avventurarmi in considerazioni
estetiche, mi sembra doveroso rendere omaggio alla superiore maestria artigianale
che occorre per realizzare senza difetti un'opera in bronzo di queste
dimensioni, un'abilità incontestabile che chiunque deve riconoscere, un punto
fermo indipendente dai gusti artistici. Di Vanelli tutti hanno apprezzato per
decenni l'impegno e il proposito di continuare la tradizione delle chiese
affrescate (con l'evidente modello michelangiolesco), delle statuine nelle
nicchie o dei bassorilievi di terracotta lombarda. Qualcuno ha arricciato il
naso per la ripetitività delle figure femminili a sanguigna che si incontrano
nelle case lodigiane, senza riflettere sulla difficoltà che ha un artista di
sopravvivere nella società di oggi con i propri mezzi, al di fuori del giro
di critici e mercanti alla moda. Si
dovrebbe semplicemente ammirare – anzichè snobbare come spesso facciamo – chi
è così idealista da sostenersi nella società dei consumi con l'aspirazione
all'arte. La città di provincia, spesso ingrata, tende a sminuire i propri
figli, a trascurare i personaggi che si conoscono troppo bene; ma l'ultima
opera scultorea rompe ogni dubbio e dimostra al mondo che Felice Vanelli, se
può lavorare in condizioni adatte, libero, con il soggetto che lo ispira, è
grande artista. Il cavallo è splendido, un robusto ma elegante cavallo
medioevale, nervoso, espressivo, a grandezza naturale, i cui dettagli sono da
ammirare uno per uno, in una magica coerenza di stile, muso, briglie,
zoccoli, orecchie, ciuffi di pelo alle zampe e, straordinaria, la coda:
ciascuno è un pezzetto da orafo, un cesello pregiato. Il cavaliere –
Barbarossa – non è da meno: postura e volto fieri, capelli a trecce che
trasmettono un'immagine di forza conservando l'incanto decorativo,
atteggiamento da condottiero ma senza enfasi; non una figura idealizzata, ma
una fisionomia quasi popolana, da nordico moderato, un volto che sembra di
riconoscere. Ricalca modelli classici, eppure è fortemente originale. E la
delizia del particolare non fa perdere l'energia dell'insieme. Può,
un monumento equestre celebrativo, essere più riuscito, più evocativo, più
vicino all'immagine popolare di Federico Barbarossa, insomma più bello? Anche
se i confronti non hanno significato (le statue celebri hanno l'onore del
tempo, della Storia e della Storia dell'Arte), è inevitabile, di fronte a una
scultura equestre in bronzo, pensare ai grandi esempi: il Marco Aurelio
romano, il Gattamelata di Donatello, il prognato Colleoni di Verrocchio dal
profilo tanto simile alle caricature leonardesche o i vicini di casa
piacentini (i due Farnese) del Mochi, svolazzanti, con l'inquietudine del
miglior barocco, o – fra i recenti – il Regisole di Francesco Messina, a
Pavia, anatomicamente perfetto e tuttavia manierato come in una gara di
dressage, o quelli essenziali, moderni, ironici di Marino Marini. La statua a
cavallo che preferisco però non è bronzea, ma di pietra: è a Verona,
trecentesca, fa parte delle arche scaligere (l'originale è al museo di
Castelvecchio, non proprio ben visibile) e rappresenta Cangrande della Scala
adolescente, sorridente, con elmo sulle spalle dall'enorme cimiero; una
statua di indefinibile fascino, cui partecipa il cavallo tutto bardato e
girato come il cavaliere. L'opera
di Vanelli, al primo sguardo, non è meno espressiva: una sintesi di movimento
e solennità, con un'imponenza sui generis. Quello
che mi piace meno non riguarda l'opera scultorea in sè: non mi piace la
patina, plastificata di giorno, lattiginosa di notte (però "si
farà" – penso – nel tempo e l'impressione negativa può dipendere dalla
mia scarsa competenza, dall'abitudine a vedere nei bronzi delle piazze solo
patine molto invecchiate); e non mi convince il basamento, sia per il granito
che per la forma e le dimensioni. Il monumento avrebbe miglior risalto nello
stesso luogo ma in posizione ancora più elevata. Tralasciando comunque le
sfumature troppo personali di giudizio (se interpelliamo cento persone,
avremo cento opinioni diverse), possiamo riconoscere che la collocazione, lo
sfondo e l'illuminazione sono, nel complesso, eccellenti e valorizzano
l'opera. Se qualcuno vuole a ogni costo un tratto di arte contemporanea, può
ritagliare mentalmente e figurarsi la splendida coda del cavallo isolata in
cornice: è – oltre che un gioiello – un magnifico pezzo di arte astratta, da
sola merita un viaggio. Sono sicuro che fra pochi anni il Barbarossa di bronzo
sarà un riferimento per la città, una sua parte essenziale, un'attrazione
indispensabile, una curiosità turistica e una meta artistica. A
Felice Vanelli i più sinceri complimenti. Francesco Dallera (Pubblicato come
lettera il 13 gen 2010 su Il Cittadino) Qualcuno
ha commentato favorevolmente la mia opinione, altri meno bene. Osservano che
il cavliere è troppo piccolo e sproporzionato, ha il torace troppo corto e
così via. Pur restando aderenti all'idea di un realismo rigoroso e
rifiutando, dato il contesto e la finalità del monumento, le deformazioni
libere che l'arte contemporanea si concede, vedo anch'io che l'uomo è piccolo
e tendente al rachitico, ma so che è una scelta voluta: Felice, pignolo in
queste cose, si è documentato. I sostenitori del realismo più accurato, è
giusto sappiano cheVanelli dalla Germania ha ricevuto, su richiesta, immagini
di smalti e sculture coeve o quasi a Federico e descrizioni dell'epoca, da
cui si evince che il Barbarossa era un omino. E allora lo scultore si è trovato
a suo agio a utilizzare – forse – come modello per l'Imperatore qualche suo
amico di corporatura esigua: i bar, la piazza, le strade ne sono piene.
Naturalmente, lo ha germanizzato e medioevalizzato con le trecce che si
intuiscono bionde e l'armatura sontuosa. |
|
|
|
Francesco Dallera |