Il Barbarossa di Vanelli

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Milano o Crema non avrebbero mai commissionato una scultura in bronzo dell'Imperatore tedesco che le ha distrutte, ma Lodi da Federico di Hohenstaufen è stata fondata e, secondo alcuni, un fondatore val bene un monumento.

In ogni caso, tralasciando per un momento, a distanza di quasi mille anni, le dispute storico-politiche e la polemica se sia o meno opportuna la celebrazione dell'imperatore e guardando all'opera di Felice Vanelli come fatto artistico, la trovo meravigliosa.

Premetto che la pittura e la scultura di oggi troppo inclini al tradizionalismo, non mi attraggono, in linea di principio. Le innovazioni ideative, l'informale di genio, la figurazione libera che il secolo XX ci ha offerto, mi interessano e piacciono più del figurativo convenzionale, che nel momento attuale mi sembra fuori tempo. La mia curiosità per una statua del Barbarossa a cavallo che si sapeva classicheggiante era perciò limitata. Ma, appena l'ho vista, ogni considerazione teorica è stata cancellata dall'emozione del capolavoro.

La critica sulle arti visive è, più che in altri settori, a rischio di retorica e pseudocultura. Per questo, prima di avventurarmi in considerazioni estetiche, mi sembra doveroso rendere omaggio alla superiore maestria artigianale che occorre per realizzare senza difetti un'opera in bronzo di queste dimensioni, un'abilità incontestabile che chiunque deve riconoscere, un punto fermo indipendente dai gusti artistici. Di Vanelli tutti hanno apprezzato per decenni l'impegno e il proposito di continuare la tradizione delle chiese affrescate (con l'evidente modello michelangiolesco), delle statuine nelle nicchie o dei bassorilievi di terracotta lombarda. Qualcuno ha arricciato il naso per la ripetitività delle figure femminili a sanguigna che si incontrano nelle case lodigiane, senza riflettere sulla difficoltà che ha un artista di sopravvivere nella società di oggi con i propri mezzi, al di fuori del giro di critici e mercanti alla moda.

Si dovrebbe semplicemente ammirare – anzichè snobbare come spesso facciamo – chi è così idealista da sostenersi nella società dei consumi con l'aspirazione all'arte. La città di provincia, spesso ingrata, tende a sminuire i propri figli, a trascurare i personaggi che si conoscono troppo bene; ma l'ultima opera scultorea rompe ogni dubbio e dimostra al mondo che Felice Vanelli, se può lavorare in condizioni adatte, libero, con il soggetto che lo ispira, è grande artista. Il cavallo è splendido, un robusto ma elegante cavallo medioevale, nervoso, espressivo, a grandezza naturale, i cui dettagli sono da ammirare uno per uno, in una magica coerenza di stile, muso, briglie, zoccoli, orecchie, ciuffi di pelo alle zampe e, straordinaria, la coda: ciascuno è un pezzetto da orafo, un cesello pregiato. Il cavaliere – Barbarossa – non è da meno: postura e volto fieri, capelli a trecce che trasmettono un'immagine di forza conservando l'incanto decorativo, atteggiamento da condottiero ma senza enfasi; non una figura idealizzata, ma una fisionomia quasi popolana, da nordico moderato, un volto che sembra di riconoscere. Ricalca modelli classici, eppure è fortemente originale. E la delizia del particolare non fa perdere l'energia dell'insieme.

Può, un monumento equestre celebrativo, essere più riuscito, più evocativo, più vicino all'immagine popolare di Federico Barbarossa, insomma più bello? Anche se i confronti non hanno significato (le statue celebri hanno l'onore del tempo, della Storia e della Storia dell'Arte), è inevitabile, di fronte a una scultura equestre in bronzo, pensare ai grandi esempi: il Marco Aurelio romano, il Gattamelata di Donatello, il prognato Colleoni di Verrocchio dal profilo tanto simile alle caricature leonardesche o i vicini di casa piacentini (i due Farnese) del Mochi, svolazzanti, con l'inquietudine del miglior barocco, o – fra i recenti – il Regisole di Francesco Messina, a Pavia, anatomicamente perfetto e tuttavia manierato come in una gara di dressage, o quelli essenziali, moderni, ironici di Marino Marini. La statua a cavallo che preferisco però non è bronzea, ma di pietra: è a Verona, trecentesca, fa parte delle arche scaligere (l'originale è al museo di Castelvecchio, non proprio ben visibile) e rappresenta Cangrande della Scala adolescente, sorridente, con elmo sulle spalle dall'enorme cimiero; una statua di indefinibile fascino, cui partecipa il cavallo tutto bardato e girato come il cavaliere.

L'opera di Vanelli, al primo sguardo, non è meno espressiva: una sintesi di movimento e solennità, con un'imponenza sui generis.

Quello che mi piace meno non riguarda l'opera scultorea in sè: non mi piace la patina, plastificata di giorno, lattiginosa di notte (però "si farà" – penso – nel tempo e l'impressione negativa può dipendere dalla mia scarsa competenza, dall'abitudine a vedere nei bronzi delle piazze solo patine molto invecchiate); e non mi convince il basamento, sia per il granito che per la forma e le dimensioni. Il monumento avrebbe miglior risalto nello stesso luogo ma in posizione ancora più elevata. Tralasciando comunque le sfumature troppo personali di giudizio (se interpelliamo cento persone, avremo cento opinioni diverse), possiamo riconoscere che la collocazione, lo sfondo e l'illuminazione sono, nel complesso, eccellenti e valorizzano l'opera. Se qualcuno vuole a ogni costo un tratto di arte contemporanea, può ritagliare mentalmente e figurarsi la splendida coda del cavallo isolata in cornice: è – oltre che un gioiello – un magnifico pezzo di arte astratta, da sola merita un viaggio. Sono sicuro che fra pochi anni il Barbarossa di bronzo sarà un riferimento per la città, una sua parte essenziale, un'attrazione indispensabile, una curiosità turistica e una meta artistica.

A Felice Vanelli i più sinceri complimenti.

 

Francesco Dallera

 

 

(Pubblicato come lettera il 13 gen 2010 su Il Cittadino)

Qualcuno ha commentato favorevolmente la mia opinione, altri meno bene. Osservano che il cavliere è troppo piccolo e sproporzionato, ha il torace troppo corto e così via. Pur restando aderenti all'idea di un realismo rigoroso e rifiutando, dato il contesto e la finalità del monumento, le deformazioni libere che l'arte contemporanea si concede, vedo anch'io che l'uomo è piccolo e tendente al rachitico, ma so che è una scelta voluta: Felice, pignolo in queste cose, si è documentato. I sostenitori del realismo più accurato, è giusto sappiano cheVanelli dalla Germania ha ricevuto, su richiesta, immagini di smalti e sculture coeve o quasi a Federico e descrizioni dell'epoca, da cui si evince che il Barbarossa era un omino. E allora lo scultore si è trovato a suo agio a utilizzare – forse – come modello per l'Imperatore qualche suo amico di corporatura esigua: i bar, la piazza, le strade ne sono piene. Naturalmente, lo ha germanizzato e medioevalizzato con le trecce che si intuiscono bionde e l'armatura sontuosa.

 


Francesco Dallera

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