La tesi di laurea di Celine |
|
|
|
Quando era giovane caporeparto di un ospedale di Vienna, comparando i dati dei parti negli ospedali e a domicilio, osservò che partorire in ospedale comportava un rischio di febbre settica e quindi di morte, molto maggiore, e che certi ospedali erano più pericolosi di altri. Prima che si avesse la struttura conoscitiva per interpretare l’osservazione, intuì che la visita ginecologica che, per prassi, era successiva al passaggio in sala anatomica (come dire che si facevano le autopsie prima di visitare le partorienti, senza guanti e senza lavarsi le mani fra l’una e l’altra cosa), poteva essere il motivo della sepsi cercò di imporre che medici e studenti lavassero le mani ("deodorassero", diceva, perché mancava allora la cognizione dei germi come agenti di malattia). Le frustranti lotte che ne seguirono, gli ostacoli opposti dai colleghi e soprattutto dalle autorità sanitarie (in particolare dal direttore del suo ospedale, che trovava ridicolo lavare le mani) sono l’esatto parallelo di quello che anche oggi accade non appena si cerca di modificare una consuetudine medica codificata. Negli uffici direzionali, nelle società mediche, nelle istituzioni professionali, nei comitati ministeriali, tendono a prevalere conformismo, paura e opposizione alle novità. La difesa delle consuetudini, l’inerzia critica, del resto, non è prerogativa del settore sanitario. Certo è che nell’ambito della pratica medica, gli operatori sensibili, quelli che osservano e pensano piuttosto che restare passivi di fronte all’abitudine pigra, si sono dovuti in qualche occasione scontrare con questa mentalità conservatrice e ottusa. In particolare, dopo centocinquanta anni da Sommelweiss, nonostante tutti ormai sappiano cosa sono microbi e virus e come possono trasmettersi, proprio nelle strutture che dovrebbero essere il tempio della correttezza igienica, l’attuazione rigorosa di tutte le misure prudenziali non è affatto scontata. Anni fa, prima che l’esplosione dell’AIDS acuisse la sensibilità su questi problemi, le occasioni di trasmettere malattie per incuria erano innumerevoli, specialmente dove (ospedali, ambulatori medici e dentistici) si praticano manovre cruente su portatori consapevoli o inconsapevoli di malattia. Anche la semplice rasatura nelle corsie era potenziale fonte di contagio (spesso i barbieri anni fa non cambiavano lama per ogni diversa persona), a causa di inevitabili graffi e micro-ferite. Nelle sale di Pronto Soccorso era usuale (mi dispiace ricordarlo) utilizzare, per piccoli interventi, forbici, pinze, porta-aghi lasciati in un bagno di disinfettante e ripresi all’occorrenza per il paziente successivo anziché sterilizzati accuratamente di volta in volta. Questa prassi (semplice immersione in un antisettico), sufficiente in genere per evitare infezioni batteriche, non garantiva contro i virus, che resistono ai comuni disinfettanti e possono trasmettersi con residui di siero o sangue anche estremamente diluiti, forniti da ignari portatori di epatiti o di altre malattie. Fino a venti anni fa o meno, era forte la discrepanza fra le conoscenze che già si avevano sulle modalità di diffusione dei virus e l’attuazione pratica di metodiche idonee a prevenire le infezioni crociate. Conosco bene queste difficoltà per aver sostenuto a lungo piccole ma significative battaglie contro la difesa dello status quo nelle strutture sanitarie da me allora frequentate. Un ricovero, un intervento, una manovra odontoiatrica, era un pericolo reale fino a tempi piuttosto recenti. Un pericolo a scoppio ritardato, perché solo dopo mesi o anni si rende evidente la malattia, e la relazione con la causa dopo mesi può essere sospettata, non provata. Ora la sensibilità è maggiore, conoscenza e attenzione dovunque sono acuiti, tuttavia molto può e deve ancora essere fatto. In molti ambulatori urologici la sola protezione per l’ecografia transrettale è un preservativo montato sulla sonda, comune per tutti i pazienti e non sterilizzata. In teoria, sufficiente; ma non è una precauzione un po’ scarsa? Pensiamo poi a estetiste, addetti a manicure, callisti, agli stessi parrucchieri: hanno le medesime responsabilità del personale sanitario rispetto alle nozioni igieniche, perché utilizzano strumenti che possono entrare in contatto con il sangue. I metodi di lavaggio delle posate e delle stoviglie negli esercizi pubblici, meglio se meccanici e automatici a garanzia di un medesimo standard in tutte le situazioni (in altre parole che sia svincolato dalla fretta o dalla diligenza del personale) dovrebbero essere applicati e sorvegliati in modo più rigido, discussi nelle sedi competenti più di quanto non si faccia; dovrebbero cioè essere trattati come un problema importante per la salute pubblica, fornendo il massimo di informazioni agli operatori e agli utenti. Una nuova cultura, basata sulla diffusione di conoscenze degli ultimi anni, deve coinvolgere tutti. La scoperta dei batteri, da Pasteur e Koch in poi, ha dato origine ai disinfettanti, alla fobia per gli sputi e alla paura delle malattie trasmesse da germi (però con grande ritardo: le sputacchiere negli anni trenta erano parte del costume europeo e americano e i primi racconti di Chandler – tanto per fare un riferimento letterario – parlano ripetutamente di sputacchiere negli uffici pubblici) e ha guidato i principii dell’asepsi operatoria. Il rifiuto dello sputo anche oggi non è condiviso da tutti, se guardiamo ai nostri marciapiedi o assistiamo alla prodigiose emissioni salivari nelle partite di calcio di serie A). I rasoi dei parrucchieri, gli strumenti non sterili di callisti ed estetiste, per non parlare dei tatuaggi, sono stati fonte di infinite infezioni a distanza, mai identificate nell’origine, anche quando ormai le conoscenze avrebbero permesso di evitarlo. Con una migliore cognizione dei virus trasmessi per via ematica attraverso quantità minime di sangue (lontane dall’essere apprezzabili visivamente) nei contatti interpersonali, si sono dovuti e si dovranno instaurare nuovi livelli di attenzione nel proteggere ferite anche piccole, nell’evitare per quanto ragionevole e possibile il contatto delle mani con gli alimenti da parte di chi opera nella preparazione e nella vendita, a non scambiare strumenti taglienti, a evitare oggetti non indispensabili e pericolosi da questo punto di vista. Riflettendo con razionalità, si può comprendere quanto siano immotivate la sorpresa e l’ironia che accompagnano proposte contrarie ad abitudini inveterate: quale reazione provocherebbe il suggerimento di eliminare gli spilli da sarto? Eppure, che cosa ci fanno nelle camicie confezionate, se la stessa funzione può essere sostenuta da mollette? E nei pacchi delle tintorie, non sono meglio punti da cucitrice o nastro adesivo? Quante persone si pungeranno ogni anno con spilli inutili? Certi virus resistono nell’ambiente e sui materiali metallici molti mesi: se 10%della popolazione ha nel sangue virus trasmissibili, quanti altri individui si prenderanno virus e malattie a causa degli spilli? Certo, un numero minimo; però concreto.
|
|
|
|
Francesco Dallera |