Gatti e Porci ( saggio quasi-critico )

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Nobili soggetti per la pittura sono: fatti storici e mitologici, paesaggi, ritratti di persone, nudi – specialmente femminili – e nature morte. La natura morta (still life, in inglese, stilleben in tedesco: vita statica; De Chirico diceva “vita silente”), iniziata nel primo Seicento, in Italia, con Caravaggio, e nell’area fiammingo-olandese, ha interessato, intrigato e coinvolto tutti gli artisti moderni fino ai contemporanei. Cézanne la ha utilizzata come pretesto per sviluppare la sua prospettiva circolare, il suo lavoro sui volumi, ed è stato così penetrante che – dobbiamo ammettere – dopo le sue opere, guardiamo in modo diverso le mele e le tovaglie drappeggiate. Alcuni pittori, come Morandi, ne hanno fatto il loro soggetto esclusivo, con variazioni sottili e infinite. Ma è curioso che pittori inclini a rovesciare le convenzioni, come Gauguin e perfino Klee, subiscano il fascino di questo tema e non resistano alla tentazione di cimentarvisi (meravigliosi il prosciutto di Gauguin alla Phillips Collection di Washington e la tazza di Klee al MOMA, di classe estrema). Come pretesto per dipingere, per elaborare forme e colori, frutta, teiere, bottiglie e bicchieri hanno avuto il massimo successo.

Fra gli animali, solo il cavallo ha ottenuto dignità di soggetto per pitture o sculture importanti. I monumenti equestri sono, è vero, ritratti che mirano a esaltare condottiero, re, imperatore di turno e il cavallo, se mai, sembra avere la sola funzione di conferire maggior virilità e imponenza al personaggio; però l’animale ha pure un ruolo fondamentale nella composizione e l’artista profonde il suo impegno sul cavallo quanto sull’uomo. Così è per il Gattamelata di Donatello, per il Colleoni del Verrocchio, per i bellissimi, movimentati cavalli barocchi del Mochi a Piacenza per i due Farnese. Si favoleggia del cavallo di Leonardo per il monumento a Francesco Sforza, il cui modello in terra fu distrutto dai soldati francesi nel 1499, in un tipico esercizio di attitudini militari. Ora se ne è fatta una ricostruzione su elementi presuntivi, per iniziativa di un americano, e si è collocata la copia quasi di fantasia a S. Siro, fra i cavalli da corsa dell’ippodromo. Leonardo non deluderebbe: sono sicuro che il suo monumento ci riempirebbe di stupore, se si potesse vederlo. Ma, se ci limitiamo alle statue equestri esistenti davvero, la più bella, per me, è la piccola scultura trecentesca dedicata a Cangrande della Scala, che sormontava una delle Arche Scaligere a Verona (ora, per sua salvaguardia, l’originale si trova al Museo di Castelvecchio): un ritratto fiero e tenero di un cavaliere fanciullo, che, con immenso cimiero decorato sulle spalle e irresistibile sorriso, trasmette la commozione miracolosa che l’arte può dare a distanza di secoli. Il cavallo è di forza uguale alla figura umana: nella torsione della testa e negli occhi che emergono dalla bardatura medioevale, ha un'espressività bellissima.

I più conosciuti dipinti di Stubbs, che hanno aperto un genere diventato di moda in un certo arredo per ambienti e negozi “all’inglese”, sono celebrativi di cavalli famosi: il fantino, se c’è, è un puro accessorio. Stubbs, però, era qualcosa più che pittore di campioni sportivi. Studioso di anatomia comparata, dipinse con animo poetico anche zebre, rinoceronti, leoni, ma fu soprattutto creatore di scene fantastiche e originale osservatore del paesaggio.

Anche molti artisti moderni e contemporanei si sono occupati del cavallo, facendone soggetto preferito delle loro opere. Sicuro, ispirato è Marino Marini. “Cavallo e cavaliere” è il titolo di buona parte delle sue opere, tutte di suprema eleganza. De Chirico, Aligi Sassu, Cesetti, per citare solo i più noti, hanno ripetutamente trattato il tema, sebbene con risultati, a mio modesto giudizio, poco entusiasmanti.

Gli altri animali sono assolutamente secondari nella pittura o scultura. Sono animali “accompagnatori”, o decorativi, o inclusi in scene di genere, come i bovini e le pecore o gli altri raffigurati con simpatia nell'Arca di Noè dei Bassano. Nella simbologia rinascimentale il gatto alludeva al demonio e in questo senso sono da vedere il gatto inarcato che scappa in un dipinto del Lotto (l’Annunciazione di Recanati) o il piccolo gatto nella libreria del S. Gerolamo di Antonello da Messina (Londra, National). C'è una Madonna con il micio di Leonardo e un gatto fra Adamo ed Eva (contrapposto a un topo) in un'incisione di Durer. Numerosi. Fra i contemporanei, hanno amato il gatto Gentilini, con stile sicuro, Balthus, che lo mette in braccio o ai piedi delle sue adolescenti discinte, lo stesso Picasso, che lo vede come una bestia feroce piuttosto che come un animale domestico. Innumerevoli pittori professionisti e dilettanti hanno riprodotto cani e gatti in quadri cari ai proprietari o agli amici degli animali, senza pretese ma con un valore non piccolo per la memoria affettiva. La pittrice Novella Parigini, che teneva salotto nel periodo della Dolce Vita a Roma, dipingeva e disegnava gatti e donne-gatto a più non posso, lasciando però un segno più nel pettegolezzo mondano del tempo che nella Storia dell'Arte.

Al di là degli specialisti di genere, si può dunque riconoscere che nessuno fra i pittori o scultori di portata internazionale, fra quelli che si propongono come artisti “seri”, ha ritenuto il micio meritevole di essere rappresentato come soggetto unico di un quadro o di una statua. Fa eccezione Steinlen, che supera tutti di qualche lunghezza con la sua serie dei gatti, in cui fa spicco lo splendido, sinuoso Chat noir (che ha, intorno al capo, un rosone-aureola con indirizzo del locale reclamizzato), famosissimo manifesto pubblicitario per la Parigi della Belle Epoque: nonostante l’obiettivo di basso profilo, il manifesto è una vera opera d’arte, tanto più ammirevole in quanto esprime così bene un’epoca senza averne la presunzione. Si è dedicato ai gatti anche il giapponese di Montparnasse Foujita, amico di Modigliani, che trasfonde una delicatezza orientale nell'Arte occidentale del periodo d'oro parigino.

Un altro esempio, molto più recente, di gatto elevato a soggetto di opera pittorica, si coglie di sfuggita all’inizio del film Eyes wide shut: quando i due protagonisti si incamminano per la festa, tutti eleganti, nel corridoio di casa loro si intravede appeso un grande gatto oversize, bianco e nero. I quadri delle case del film sono tutti della terza moglie del regista, Christiane, pittrice di stile post-impressionista; ma il dipinto in questione fa eccezione: è il ritratto in acrilico di Molly, gatta della famiglia Kubrick, vissuta fino a 22 anni, dipinto dalla figlia adottiva del regista, Katharine, per il sessantesimo compleanno del regista. Regalo evidentemente gradito dal padre, se l’ha collocato in posizione così importante nel film.

Non parliamo poi del maiale: a parte Il porco mostruoso dell'incisione di Dürer, e un paio di maiali disegnati o incisi dall'onnivoro Rembrandt (al momento della macellazione e davanti a un negozio, con la lucida, cruda obbiettività e, insieme, la permeante, implicita commozione del grande artista), è ignorato, se escludiamo i pittori folk di area anglosassone, itineranti per le fattorie, che ritraevano per lavoro i campioni delle razze bovine e qualche volta scendevano fino alle pecore o ai porci della cascina. Qualche quadro di questi pittori naif del Sette-Ottocento mostra comunque gusto nel restituire l’immagine delle forme del porco, garbatamente stilizzate, sulla linea della caratterizzazione piacevolmente deformante con cui Stubbs ritraeva i cavalli: lunghi e slanciati i purosangue di Stubbs, levigati e rotondi i maiali folk. Ho visto due casi isolati di maiali come protagonisti di opere contemporanee di autori consacrati dalla critica: un dipinto di Artschwager, appeso alla parete di una casa americana, fotografata su una rivista di arredamento chic, riproduce un porco grigio di profilo che occupa tutta la tela, e una scrofa di un qualificato scultore iperrealista (Andrè Harvey), modellata in bronzo a cera persa, a grandezza naturale (titolo: Helen, venticinque esemplari, peso 220 Kg.), destinata al fresco e poco accademico mercato statunitense.

Eppure il gatto e il porco sono magnifici soggetti: ideali come pretesto per esercitazioni di forma e colore, spunto per elaborazioni grafiche, pittoriche o plastiche, possibile suggerimento per infinite variazioni. La natura morta sarà affascinante per la storia e avrà l’onore del tempo, ma è ormai superata e ridicola. Già dipingere con i pennelli è fuori del tempo (tanto è vero che gli artisti furbi non dipingono più e propongono piuttosto installazioni, neon, arte in movimento e via discorrendo, specialmente arredi da bagno, tazze di water-closet e così via); dipingere addirittura nature morte, oggi, vuol dire essere i più letargici tra i filistei. Un’opera geniale, che sottende un’intuizione per salvare capra e cavoli, tradizione e superamento esplicito della tradizione, un’ironia seria, un colpo d’ala spregiudicato per uscire dall’imbarazzo che già un secolo fa un artista intelligente sentiva, è Natura morta con tre cuccioli di Gauguin (al MOMA, New York); un dipinto in cui il piano del tavolo bianco, con tenui fregi stampati, disposto quasi verticalmente, ospita pere, altra frutta e bicchieri in bell’ordine, secondo lo stile delle nature morte più classiche, ma anche tre cagnolini che lappano da una ciotola. Questa -- trovo -- è vera arte concettuale, più che quella che recentemente si è definita tale con prosopopea.

Ritrarre o elaborare le figure di animali è stato fonte di poesia per molti, dalla preistoria all’antichità ai nostri giorni. Ogni epoca ha offerto motivazioni e giustificazioni diverse; gli uomini delle caverne hanno prodotto i capolavori di Altamira forse con finalità religiose e propiziatorie, Audubon ha litografato e colorato i suoi straordinari animali selvatici con il pretesto naturalistico-scientifico. Oggi possiamo, con la libertà che l’evoluzione delle arti visive ci consente, senza bisogno di fedeltà al modello e con la disinvoltura culturale che il Novecento ci ha portato, tornare agli animali per il fascino delle loro forme e della loro peculiare armonia, per la loro spontaneità nel rapporto con la vita, una spontaneità e un piacere che temiamo di avere perduto.

Ho ripreso a disegnare e dipingere da quando le mie figlie, piccole, mi facevano le ordinazioni: fammi un gatto, fammi un maiale, un orso, un canguro. Più mi distaccavo dalla verosimiglianza, più le bambine gradivano. Posso dire che, nel mio piccolo, mi sono cimentato con quasi tutti gli animali comuni, inclusa (digressione storica) la lupa di Romolo e Remo, che ho immaginato lontana dalla tana in cerca di cibo. Il mio repertorio (non per vantarmi) è completo, per quantità di animali. Mi sono cimentato con toro, mucca, pecora, anatra, capra, ma anche civette, gufi, lepri artiche, cammelli, animali africani e un cucciolo di lince sono stati miei modelli immaginari, non senza qualche sconfinamento in un bestiario fantastico, riprodotto – perché inesistente – con particolare realismo. Però preferisco gatti e maiali, sui quali ho fatto centinaia di variazioni. Li dipingo in tutte le apparenze, pose, espressioni che mi vengono in mente e con tutte le tecniche grafiche e coloristiche di cui sono capace. È un’attività molto distensiva. Per salvare il mondo dei quadri realizzati con colori a olio o acqua, pennelli, pastelli, carboncini, su supporti come tela, carta, legno, che le correnti d’avanguardia trattano come oggetti preistorici, “abbaglianti artefatti del passato”, occorre, per chi ancora ha passione per queste cose superate dai tempi, prendere le distanze proprio dagli aspetti più retorici e vuoti della critica d’oggi, dissacrandone, con pacato umorismo, le esagerazioni e i toni falsamente colti, sfrontatamente ermetici per un pubblico da prendere in giro, in complicità proficua con un mercato senza pudore. Così, prendendo a modello la critica più presuntuosa, ho preso a commentare i dipinti sul retro: quale è stata l’idea-base, l’immaginario di sottofondo; che gatto è, che porco è, o se il disegno fa parte di qualche serie (per esempio: suite “Proverbi sul gatto”; “Porci del “periodo rosa”, quello giovanile – chiamato così, con allusione allo scontato esempio picassiano, per il colore rosa tipico del suino italiano – e le più elaborate opere a fondo scuro della “Maniera nera”, di atmosfera cosmopolita). Mi piacciono i titoli lapidari: “Porco su tela”, “Natura morta tranne il maiale”(dove il maiale si affaccia ben vivo). C’è anche “Il porcello di De Kooning”(evito, naturalmente, il patetico titolo “Omaggio a …”), con i contorni che emergono dal gomitolo di segni automatici imitati da De Kooning, come le lamiere di automobili nelle presse dello sfasciacarrozze.

Con piacere infantile, ho fatto risalire a galla, dalla memoria lontana, il primo maiale che ho visto, l’impressione di roseo, il grugno, il codino arricciato; e i primi gatti, bianchi e neri, tigrati, le loro movenze come mi apparivano da bambino. Li ho mescolati, nella massima anarchia tecnica, con l’universo visivo-culturale che mi ha più influenzato, con l’involontario contagio e l’inconscia imitazione dei grandi esempi – Paul Klee, Dubuffet e tutti gli altri e ne ho sempre ricavato divertimento, quiete e buon umore.

Quando avete dipinto, se l’opera è, secondo voi, ben riuscita, valorizzatela, cercategli voi stessi una bella cornice. Con gli animali, meglio, se possibile, una cornice vecchia: li rende più solenni. Studiate il passe-partout o vedete se è meglio la cornice a filo.

I significati simbolici o religiosi degli animali graffiti, modellati, dipinti in tempi lontani, dalle caverne al Rinascimento, ci sfuggono in buona parte. Ma, allora come ora, con o senza motivazioni ideologiche, propiziatorie o simboliche, il rappresentarli è rasserenante e soddisfa un’intima pulsione a prendere contatto con una natura autonoma, vitale e misteriosa.


 

 


Francesco Dallera

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