Se, nonostante le radiografie, le indagini reflettografiche, le analisi stilistiche e l’esame sulla stesura delle pennellate, i più illustri studiosi si trovano in disaccordo a volte totale sui problemi intorno a Giorgione, anche un appassionato senza titoli si sente autorizzato ad avere idee proprie sulle attribuzioni e sul controverso rapporto Giorgione-Tiziano. Giorgione è circondato da un alone di speciale poesia, fin dalle cronache e critiche contemporanee o quasi. Vasari cita la fama miracolistica del Cristo portacroce della scuola di S.Rocco, che, peraltro, nella seconda edizione delle Vite, attribuisce a Tiziano, in contraddizione con il capitolo su Giorgione, forse perché Tiziano stesso, abile pubblicitario della sua arte, se ne appropriò, giocando sulla sua collaborazione. Il fascino di Giorgione è sentito e traspira da gran parte della critica, però ci sono eccezioni. Longhi insiste sulla"timidezza" della sua pittura e si avverte che timidezza, per Longhi, è equivalente di incertezza, è guardata come mancanza di nerbo, limite di personalità, difetto artistico. Si capisce bene che gli preferisce Tiziano, più sanguigno e concreto, tanto è vero che considera troppo complessi per Giorgione (cioè fuori dalla sua portata) e assegna senz’altro a Tiziano il Concerto Pitti e il Concerto campestre del Louvre. Per di più, giudica "fragile" il "ponte fra ritmo e colore" della Venere di Dresda e ritiene che il "mirabile drappo bianco" debba "sovvenire" a sorreggere detto metaforico ponte; mentre il drappo, pur benissimo dipinto, è da altri ritenuto aggiunta di Tiziano proprio perché, troppo crudo e terreno, sembra guastare il delicatissimo equilibrio fra nudo e paesaggio.
Ma il più duro critico di Giorgione è, fra tutti, Gentili, il quale nega che Giorgione abbia avuto una bottega, nega che Tiziano possa aver raccolto gli incompiuti ( e perché no, visto che Giorgione era un inquieto sperimentatore, proprio il tipo che poteva impostare e non finire e per di più morì improvvisamente a trentadue anni?), nega che Tiziano fosse parte dell’entourage di Giorgione ( e perché no, dato che entrambi furono al Fondaco dei Tedeschi, e visto che un rapporto di collaborazione -- se non una bottega vera e propria -- doveva pur esserci, se il contemporaneo Michiel riferisce che Tiziano e Sebastiano del Piombo terminarono, rispettivamente, la Venere e i Tre Filosofi?). Gentili rifiuta addirittura che Tiziano sia mai stato "giorgionesco o giorgionista", mentre una fase di vicinanza stretta allo stile di Giorgione, di influenza chiara, è innegabile nelle opere giovanili di Tiziano: Amor sacro e profano, Noli Me Tangere, Tre Età di Edimburgo, per non parlare di quelle con attribuzione dubbia o controversa, come la Madonna fra i Santi del Prado (a meno che non si ammettano queste come tutte di Giorgione); attenua persino il significato di stima, apprezzamento, favore tra iniziati, che certo dovevano avere le committenze da parte degli amici appartenenti allo stesso cenacolo intellettuale di sapore arcadico (che si rifaceva al Bembo e al Sannazzaro), associandovi il senso di un’incapacità, per insuccesso professionale, ad avere commissioni più importanti e remunerative, per esempio religiose.
Uno studioso come Bushbeck, autore della voce Giorgione sull’Encyclopaedia Britannica negli anni sessanta, direttore a quel tempo del Kunshistorisches Museum di Vienna, è stato per me, allora, il primo esempio di clamorosa contraddizione da pulpito autorevole (sull’Encyclopaedia edita attualmente il capitolo, di altro autore, più breve e più asettico, è radicalmente diverso). Dopo aver dissertato sulla leggenda e sul mistero che circonda il pittore e aver puntualizzato il carattere distintivo della sua pennellata a piccoli colpi, a brevi segmenti, imparentata con la tecnica delle miniature ad acquarello e con il successivo "pointillism", si addentra nel discorso attributivo. Considera opere di autenticità indiscutibile la Laura di Vienna, per l’iscrizione sul retro, la Pala di Castelfranco e il frammento di affresco del Fondaco, per la certezza documentale; ma anche, come è giusto, i Tre Filosofi e la Tempesta, in quanto citati dal Michiel. L’autorità del Michiel è però immediatamente dimenticata a proposito della Venere dormiente: il cronista cinquecentesco la cita e la descrive come opera di Giorgione, Bushbeck esclude rigidamente -- senza spiegazione -- che possa essergli assegnata.
Marcantonio Michiel, amatore e collezionista d’arte, tenne un taccuino di appunti dal 1521 al 1543. Il taccuino fu scoperto e pubblicato poco più di un secolo fa da Morelli, che riconobbe nella Venere della Gemaldegalerie di Dresda quella vista da Michiel nella casa di Girolamo Marcello. Di Giorgione, Michiel elenca dodici dipinti visti personalmente in dimore patrizie di appassionati della cerchia elitaria del pittore. Tre sono identificabili con certezza: la Tempesta (allora in casa Vendramin), i Tre Filosofi (in casa Contarini) e la Venere (presso Girolamo Marcello), della quale è stato argomento di dibattito l’annotazione del Michiel stesso: "La Venere nuda che dorme in uno paese cun Cupidine, fe de mano de Zorzo da Castelfranco, ma lo paese et Cupidine furono finiti da Tiziano", ove "paese" deve intendersi "paesaggio". Siccome è il concreto e vigoroso drappo ammirato da Longhi a sembrare ad altri (Zampetti, Pignatti, Humfrey, che parla di "rather over-assertive foreground drapery") stonato o almeno discordante rispetto alla figura e all’atmosfera generale, è verosimile che proprio lì sia stato l’intervento principale di Tiziano. Secondo Gentili, l’intervento di Tiziano sarebbe stato richiesto non per finire, ma per modificare il dipinto, per orientarlo in una direzione più allusiva e maliziosa, visto che era destinato alla camera da letto: la data delle nozze di Girolamo Marcello e del presunto incarico -- 1507 -- sarebbe troppo lontana dalla morte di Giorgione -- 1510 -- per giustificare l’interruzione dell’opera. Ma che la tela sia stata consegnata per le nozze, che Giorgione l’avesse conclusa, che il committente non fosse contento, sono solo congetture fantasiose, per di più formulate da un odiatore di Giorgione; che poi Marcello richiedesse l’intervento di Tiziano, perché insoddisfatto dell’opera, oltre a essere un pensiero artificioso, non deporrebbe a suo favore: nella pallida immagine fra storia e leggenda che abbiamo del gruppo di amici colti, con ideali arcadici, Girolamo Marcello, fortunato possessore del nudo più poetico della storia dell’arte, prenderebbe i connotati di una pecora nera traditrice e ingrata ("nolite proicere margaritas ad porcos" ).
Nella Venere, è stata osservata la rassomiglianza delle case sullo sfondo con quelle di altri dipinti di Giorgione, di Tiziano, o di attribuzione incerta. Più che di una rassomiglianza, si tratta di una perfetta identità fra il gruppo di case rurali sulla destra della Venere e quello del Noli Me Tangere di Londra. In quest’ultimo, a parte l’edificio più avanzato, eliminato insieme agli alberi perché invaderebbe troppo la scena, tutto è identico, perfino le grate alle finestre, la distribuzione della luce e la collina sottostante compreso il sentiero che vi sale. Anche Il Tramonto della National Gallery di Londra ha un gruppo in parte simile; ma la luce e l’atmosfera sono del tutto simili anche negli edifici in lontananza dei Tre Filosofi, con la parte bassa delle costruzioni in ombra sfumata. E infine il gruppo è veramente identico, però girato in modo speculare, nell’Amor sacro e profano di Tiziano (Galleria Borghese). Non è detto che paesaggi identici siano stati per forza eseguiti dallo stesso pittore, altrimenti il problema attributivo diventerebbe ancora più complicato. Evidentemente siamo di fronte ad un blocco pittorico che quegli artisti veneziani trovavano bello da dipingere così come noi lo troviamo bellissimo da ammirare dipinto.
Uno degli argomenti spesso invocati per riconoscere le opere di Giorgione è la sua tecnica puntillista ante litteram: il colore dato per piccole macchie e punti (senza precedente disegno, riferisce semplificando Vasari). Secondo questo tipo di rilievi, i personaggi del Concerto campestre (Louvre) sarebbero di Giorgione, la figura statuaria a sinistra e il paesaggio, stesi per larghe pennellate, di Tiziano. Vincolarsi a questo assioma sembra, però, una sorta di dogmatismo tecnico, una prigione logica. Se Giorgione, nella sua breve vita artistica, intensa e febbrile nella ricerca poetica, ha modificato più di un carattere stilistico, bisogna concedergli una certa ampiezza di soluzioni tecniche. Il Concerto campestre è terribilmente giorgionesco e concordo con le osservazioni di Humfrey che, nel suo bel libro sulla pittura veneziana del Rinascimento, "sente" l’opera come di Giorgione proprio per la complessità per cui Longhi la sentiva di Tiziano. Humfrey nota le differenze rispetto alle Tre età dell’uomo di Tiziano (National Gallery di Edimburgo), poco più tardo e ancora di ispirazione giorgionesca: Tiziano fa emergere le figure quasi in rilievo, è più decorativo e "variopinto", pone gli sguardi in un rapporto più franco e diretto; il pittore del Concerto costruisce passaggi luce-ombra più graduali, è influenzato da Leonardo nel trattamento delle sfumature, offre una relazione emozionale fra i personaggi enigmatica, come nella Tempesta (anche se sono diverse la scala dimensionale e la distanza tra le figure), ritrae un nudo femminile a sinistra simile a quello del Fondaco; proprio questa figura che a molti è sembrata tizianesca per l’opulenza delle forme, rimanda invece a Giorgione per l’astratta bellezza nella posa e nello sguardo: in sostanza evoca un tono di mistero e di suggestione che sono intrinseche al genio di Giorgione, un sentimento che alcuni critici avvertono, altri non riconoscono. Oltre a Humfrey, fra gli studiosi autorevoli, hanno considerato il Concerto opera di Giorgione, in netta minoranza e con motivazioni dello stesso tenore, Lionello Venturi, Chastel e Hornig.
Senza intestardirsi nell’attribuire questo o quel dipinto, questa o quella parte all’uno o all’altro (esigenza nostra forse incompatibile con il modo di lavorare di quel tempo, frequentemente a più mani e con ricorso ad aiuti), certo nel periodo intorno alla morte di Giorgione, si accetti o meno che gli sia stato allievo, Tiziano ha avuto uno stile molto vicino ( e lo stesso vale, in misura minore, per Sebastiano); se ne ha completato, come si deve ammettere, alcune opere, ne ha rispettato pienamente il sapore e l’atmosfera, ferme restando le differenze di personalità che emergeranno nel percorso successivo. Eppure, le opere di Tiziano più strettamente ispirate da Giorgione (Amor sacro e profano di Roma e Tre età di Edimburgo), sebbene incantevoli soprattutto nel paesaggio, non ne hanno il pathos. Lionello Venturi riassume bene quello che vedono i sensibili a Giorgione: "Tiziano sente la bellezza delle immagini e la realizza appieno come bellezza ma non proietta in esse il proprio sogno perché non sogna affatto".
Ottenuto o meno grazie alla pennellata puntillista, nelle opere di Giorgione -- in alcune marcatamente -- è caratteristico, ed è pieno di fascino in sé, un effetto flou, simile a quello di fotografie scattate con una garza davanti all’obbiettivo, trucco esageratamente sfruttato da fotografi con velleità artistiche qualche decennio fa. Questo effetto, molto evidente in alcune parti dei Tre Filosofi, nella Adorazione Allendale di Washington, nell’Adorazione di Londra, nella Giuditta dell’Ermitage, nel (brutto) bambino della Pala di Castelfranco, nell’Apollo con flauto di Hampton Court, sfuoca il contorno e non ha precedenti pittorici: è emulato a Firenze da Andrea del Sarto e clamorosamente assorbito da Bellini nelle opere dopo il 1505 (è facile confrontare le due Madonne di Brera, di periodi diversi), il che attesta la prodigiosa permeabilità del vecchio pittore a ogni influsso stilistico potenzialmente favorevole, ma è anche una riprova dell’influenza di Giorgione sui contemporanei, in accordo con la testimonianza del Vasari e a dispetto dell’opinione di Gentili, secondo il quale non aveva prestigio a suo tempo e le sue "poesie", soggetti senza tematica specifica, sono un ripiego per la carenza di commissioni lucrose da chiese e corporazioni (cosa che, anche fosse vera, non incrinerebbe comunque la peculiarità assoluta, la modernità, il lirismo di Giorgione).
Humfrey sottolinea giustamente l’influsso di Leonardo (che fu a Venezia nel 1500) in alcuni dipinti; in particolare nel Giovane con la freccia di Vienna e nelle Tre Età Pitti (intendendone implicitamente sicura l’attribuzione): per l’emergere morbido delle figure dall’oscurità dello sfondo, in entrambi; per il contrasto fisionomico di personaggi, oltre che per la torsione del vecchio che guarda fuori dal quadro, nella tavola di Firenze (le osservazioni di Humfrey, originali per Giorgione, hanno come base i saggi di Gombrich su Leonardo). Quali che siano i significati allegorici o tematici, una misteriosa tensione è propria delle opere più significative ed è il risultato voluto e ricercato artisticamente, come dimostrano le correzioni radicali, svelate dai raggi X per esempio nella Tempesta, dove il giovane in piedi è stato sostituito a una seconda donna nuda che si immerge nell’acqua, correzioni che dunque escludono un rigido significato della scena.
Un particolare dei volti esaltato, nel suo valore attributivo, dalla scuola critica italiana, è l’orecchio: i pittori quasi sempre lo dipingono secondo un modello ripetitivo, stereotipato, indipendente dal soggetto rappresentato. Senza ipertrofizzarne il significato, si possono fare alcune considerazioni partendo da opere sicure o relativamente sicure: nel S. Giuseppe dell’Adorazione di Londra e in quello della Sacra Famiglia Benson, vediamo orecchie abbozzate, quasi informi, sottili striscioline di colore vago e impastato: molto simili al pezzetto di orecchio -- per giunta mal posto -- nella donna della Tempesta e al lungo pallido incerto orecchio del Bambino allattato (ricco di suggestione pittorica e poetica seppure piuttosto infelice anatomicamente rispetto alla Venere di Dresda il nudo femminile, molto bello soprattutto nell’espressione il Bambino). Le orecchie sono poco congeniali a Giorgione: forse non gli dava importanza, concentrato com’era sulla riuscita e sull’ineffabile mistero degli sguardi, ed è facile tentazione -- dunque da evitare -- dire che era già un pittore moderno, per cui il disegno poteva essere sacrificato alla finalità espressiva; l’orecchio potrebbe essere una costante manifestazione dell’insofferenza per il dettaglio irrilevante, un piccolo ripetuto esempio di non finito. Anche la Pala di Castelfranco, la più certa di tutte le opere, ha orecchie simili nel Bambino, malissimo riuscito nel viso schiacciato e deforme, eppure tipicamente giorgionesco. Ancora peggio, una specie di bistecca conformata alla rovescia, è l’orecchio di Oloferne dell’Ermitage -- nella testa calpestata dalla serafica e lontana Giuditta -- che è bello pensare, secondo l’elegante ipotesi di Pignatti, come un autoritratto ironico e sofferente, simbolizzante e autobiografico (Oloferne = Giorgione-amante respinto). Del resto c’è forte rassomiglianza con il busto di Braunschweg, ritenuto un autoritratto (a prescindere dai problemi di autenticità) e con il Filosofo più giovane di Vienna, altro possibile autoritratto (Hornig). Quanto agli altri due filosofi, hanno tipici volti giorgioneschi, larghi e corti, con fronte alta, pensosi, che ritroviamo nei S. Giuseppe Benson, Allendale e Adorazione di Londra e ricordano una tipologia belliniana, specialmente i Santi barbuti della Pala di S. Zaccaria (cfr. il saggio di Gombrich sulle tipologie fisionomiche "travasate" fra maestro e allievo o pittori in contatto artistico, per esempio Lippi-Botticelli, Verrocchio-Leonardo).
Sono però l’espressione dei volti, gli sguardi, gli occhi, la caratteristica (poetica più che analitica, quindi appoggiata tenuemente all’arbitrio della sensibilità soggettiva) riconoscibile meglio in diverse opere di Giorgione: sguardi, occhi, fissi in un punto non geografico ma mentale; questo tipo di sguardo si ritrova con sicurezza in tutti e tre i Filosofi , nei due Santi della Pala (nei quali forse c’è un giovanile eccesso di languore), nel ragazzo con freccia e in quello con flauto, nel Marcello di profilo di Vienna e nel Cristo portacroce, nella donna della Tempesta e, assolutamente, nella Laura. Qualcosa di molto vicino ha negli occhi il giovanetto delle Tre Età Pitti: l’attenzione a un’immagine interiore piuttosto che alla pagina tenuta in mano. Lo stesso sguardo a me sembra di vedere nella donna a sinistra del Concerto campestre. Ma anche la Venere di Dresda, pur addormentata, con le palpebre abbassate, riesce ad avere un’espressione inequivocabilmente simile.
Testi cui si fa diretto riferimento nell’articolo:
-G. Vasari, Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti, Firenze 1550, Firenze 1568 Ed. recente: Newton & Compton, Roma, 1991 (dall’edizione del 1568)
-M.A: Michiel, Notizia d’opere di disegno 1521 - 1543, a cura di G. Frizzoni, Bologna, 1884
-G. R. Longhi, Viatico per cinque secoli di pittura veneziana, Firenze, 1946, riprodotto in "Da Cimabue a Morandi", Milano, Mondadori (I Meridiani), 1973
-P. Zampetti, Giorgione e i giorgioneschi, Catalogo della Mostra,Venezia, 1955
-P. and L Murray, The art of Renaissance, London, Thames and Hudson, 1963
-E. H. Bushbeck, in Encyclopaedia Britannica, "Giorgione", vol. 10, Chicago, 1966
-T. Pignatti, Giorgione, Venezia, 1969
-U. Steer, Venetian painting, London, Thames and Hudson, 1970
-K.Clark, Landscape into Art, London, Murray, 1976
-E. H. Gombrich, The Heritage of Apelles, Oxford , Phaidon Press Ltd., 1976 F. Pignatti, Giorgione, L’opera completa, Milano, 2 ed., 1978 G. Chastel, L’art italien, Paris, Flammarion, 1982 E.H. Gombrich, Antichi maestri, nuove letture, Torino, Einaudi, 1986
-C. Hornig, Giorgiones spatwerk, Munchen, 1987
-L. Venturi, La pittura del Rinascimento, Roma, Newton Compton , 1989
-M. A Gentili, Tiziano, Art Dossier N° 47, Firenze, Giunti, 1990.
-N. Perissa Torrini, Giorgione, catalogo completo, Firenze, Cantini, 1993
-P. Humfrey, Painting in Renaissance Venice, London, Yale University Press, 1996
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