Gusti in fatto di arte: considerazioni

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La critica, di alto o basso livello, pretenziosa o modesta, non può certo cambiare i gusti, non può convincere nessuno. È piuttosto uno stimolo a considerare aspetti forse non individuati prima, un invito a riflettere su un’opera o un autore. Alla fine si condividerà o meno l’opinione presentata, con maggiore convinzione però, per i nuovi argomenti pro o contro scaturiti dal confronto. Leggere o parlare di arte per un appassionato è in ogni caso piacevole, come per i pescatori parlare all’infinito di esche e pesci o, per i cultori del calcio, di giocatori, moduli di gioco e allenatori.

Dunque, ecco i miei gusti, con una serie di argomentazioni d’accompagnamento più arbitrarie che mai.

L’arte occidentale, da Cezanne in poi, ha imposto il consenso a deformare il disegno. Ci sono stati deformatori anche prima: Bosch, Cosmè Tura, El Greco, però meno clamorosi e così coerenti stilisticamente da non farlo notare. Ma il disegno può essere deformato con eleganza interna o senza regole interne. La recente espressione "bad painting" è stata coniata per indicare una corrente che ricerca volutamente l’idea di casualità, per il disegno e per la pittura; però anche in precedenza per tutto il Novecento c’è una gran dovizia di cattivo disegno, voluto o non voluto. Alcuni artisti che hanno scelto di disegnare male sono mostri sacri: Chagall, dopo il periodo giovanile, nostalgico e improntato a un personale cubismo narrativo, diventa un deformatore infantile e casuale. Questa scelta non mi piace per nulla, mi mette a disagio, mi produce una specie di nausea. Non è l’infantilismo che mi disturba: per esempio Dubuffet, programmaticamente infantile, mi piace molto, soprattutto nei quadri materici, di gesso e bitume, perché la sua ricerca di una libertà infantile ha rigore e classe (è quasi monocromo nei quadri materici, e ha colori contrapposti di grande gusto e purezza in quelli, per esempio, con le mucche nei prati). Una ricerca infantile sul versante che non mi entusiasma è quella di Mirò: meglio di Chagall, molto peggio di Dubuffet; Mirò è lezioso dove Dubuffet è selvaggio, libero, guidato solo da un prepotente, non convenzionale senso estetico. I soggetti "biomorfi" di Mirò non esercitano attrattiva su di me, mi comunicano una puerilità forzata di genere sgradevole.

Chi unisce raffinatezza, commozione estetica, cultura, musicalità armonica, rigore e fantasia, è Paul Klee: vedere le sue opere mi suscita sempre emozione; mi piacciono intensamente anche nelle più grossolane riproduzioni, figuriamoci quanto mi emozionano viste dal vero. Per motivi storici è spesso affiancato a Kandinsky che, invece, non mi piace per nulla, specialmente per le opere che lo hanno reso famoso, quelle astratte: dispersive, slegate, illogiche, arbitrarie proprio nell’esito estetico. Sarà anche stato il primo astrattista (però i tempi erano ormai maturi e l’astrazione pura stava esplodendo polifocale, addirittura era immanente già negli ultimi quadri di Cezanne), ma i suoi quadri non hanno, per me, né bellezza né fascino. Sarà anche un perfetto teorico (scrive bene e sostiene la sua pittura con argomenti profondi mostrando grande coscienza dell’evoluzione dell’arte), però alla vista dei dipinti, cade tutto: posso forse stimarlo, ma non mi piace affatto. Forzando un po’ con gusto dissacratorio, potrei commentare: ottimo teorico, cattivo pittore. Però è un mostro sacro, un intoccabile; dire: "Kandinsky vale poco", è proibito, è un grave sacrilegio.

Grande invece il fascino dei dipinti di Fautrier. Gli attributi chiave per lui sono: informale, francese, colto, raffinato, sensibile, umano, capace di turbare con messaggi poetici originali. Eppure è comunemente considerato importante ma "brutto", o almeno difficile da digerire. I suoi ammassi di materia pittorica sono più commoventi di tante figurazioni, sono sofferti e, per me, di presa immediata. Una prova della sua ispirazione costante, è un quadro atipico al museo di Grenoble: figurativo, nel senso che riproduce pesci blu, dal colore sfumato, alternati nella direzione testa-coda, in una serie verticale, ma estraneo al senso di una rappresentazione; è un’immagine di fantasia pura, di superba e composta eleganza. Non riconoscibile come suo – troppo diverso da quelli più noti – mi ha colpito da lontano, entusiasmato prima che leggessi l’autore, a riprova che ciascuno di noi ha un gusto che cammina per collegamenti di affinità e di sensibilità.

Deformatori elegantissimi e ammirevoli sono Modigliani e Schiele, sentimentale-dolce il primo, gotico-tragico il secondo; entrambi straordinari nel controllo della linea in funzione dell’espressività artistica.

Schiele è uno dei più grandi tragici di tutti i tempi nelle arti visive, e il suo livello di stile è prodigioso, di compostezza esemplare, ancor più ammirevole se consideriamo l’ età giovanissima.

Di De Chirico sono originali, suggestive, le opere metafisiche giovanili, per ideazione ed esecuzione; un sogno nitido, fra incubo e nostalgia, trasferito in visione oggettiva in una bella sintesi di motivi originali e innovativi, su fondamenti eruditi della tradizione: rispetto di antichi valori e consapevolezza dei fermenti del mondo tecnologico con i suoi risvolti filosofici. La parola "metafisica" non può nascondere che siamo sul terreno del Surrealismo, movimento che infatti fu fortemente influenzato da questi dipinti, tanto che è lecito considerare De Chirico il vero inventore del Surrealismo, con intrecci indubitabili, negli enigmi onirici, con Freud e la psicanalisi. Anche in questi eccellenti dipinti, De Chirico mostra di essere, dietro l’apparenza, un conservatore, un pittore vecchio (non d’età) che si traveste da nuovo col mezzo della cultura e della padronanza tecnica, a un livello altissimo di qualità e con scelte contenutistiche nuove e moderne. Del resto la sua ostilità alla dissoluzione delle forme che il Novecento aveva portato avanti sugli spunti dell’Impressionismo è stata esplicita. Questa preferenza d’animo diventa evidente nelle opere successive, di tema accademico e di esecuzione morbida e sensuale: queste, con cavalli, templi, colonne, ritratti, nature morte, marine di aspetto oleoso, incluse le Venezie (nonostante Venezia come soggetto addolcisca qualunque giudizio) non sono accordate col mio gusto; le trovo pesanti e retoriche. Molto meglio le opere del fratello Savinio, che, musicista professionista, era anche drammaturgo, scrittore di pregio, critico – bello nello stile e nei contenuti il libro di saggi La scatola sonora – diventa dopo il 1926, pittore, sulla linea della seconda maniera del fratello, con la pennellata tratteggiata ancora più accentuata, ma con un soffio di ironia in più, un’ironia filosofica, non caricaturale, resa solenne dall’alta classe esecutiva e formale, con paradossi visivi (le teste di uccelli da cortile su corpi da eroi) sostenuti da energia, eleganza stilistica e perfetta qualità tecnica.

Quella specie di divisionismo tratteggiato mediato dal fratello Giorgio, diventa una vibrazione accesa su tutta la superficie ed è al servizio di un timbro surreale originalissimo, continuazione della pittura metafisica, con la tecnica ma non i contenuti del fratello, di cui ha acquisito la pennellata nella versione "neoclassica" (diciamo la seconda maniera, quella dei soggetti mitologici e dei cavalli sulle spiagge), con risultati più leggeri, più ironici, disinvolti e non retorici.

 


Francesco Dallera

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