Intervista

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Francesco Dallera, nato 30.06.1946

Laureato con lode nel luglio 1970, a Pavia.

Dal 1971 a Lodi, internista in ospedale, I divisione medica fino al 1980.  In seguito si dedica prevalentemente alla Gastroenterologia ed Endoscopia dopo un periodo di perfezionamento all'Addenbrook's Hospital, Cambridge. E' responsabile di questo servizio fino al termine del 1996, quando lascia l'Ospedale. Ha frequentato corsi post-laurea in Europa e USA.

Ha conseguito le specializzazioni universitarie italiane di Medicina Interna, Dermatologia, Gastroenterologia.

 

(Da un’intervista a una radio locale)

Perché internista, gastroenterologo, dermatologo?

Mi è piaciuta molto la Medicina Interna, cioè la pratica di una medicina a livello specialistico ma capace di abbracciare l'organismo nel suo insieme, senza perderne di vista l'unitarietà. Oggi però questa possibilità è quasi del tutto negata: il moltiplicarsi delle conoscenze scientifiche e la superspecializzazione nelle tecnologie ha indotto a una frammentazione sempre più accentuata; la figura dell'internista è messa da parte, scavalcata nel concetto generale da quella dei superspecialisti. Anch'io per avere una riconoscibilità mi sono "superspecializzato", anche se mi sento soprattutto internista come formazione e mentalità. Per questo, quando era ancora ragionevole curare nello stesso reparto malattie di cuore, di fegato, di intestino, dell'apparato endocrino e così via, ho sentito il desiderio e la necessità di saper leggere meglio le manifestazioni della pelle: è paradossale che si facciano esami complessi, invasivi, impegnativi, a volte pericolosi per avere dati in più su organi interni e non si sappia trarre il massimo dalle informazioni dalla pelle. E' vero che si possono interpellare i dermatologi, ma il dubbio, il sospetto viene solo se si ha la struttura conoscitiva capace di raccogliere l'osservazione. Spesso, non vediamo ciò che guardiamo. Per esempio, unghie “a cucchiaio” orientano verso una carenza di ferro, unghie gialle verso un'alterazione della funzione tiroidea, angiomi stellari multipli e cospicui fanno pensare a disfunzione epatica, mentre gli angiomi a ciliegia, a volte più vistosi, non sono indizi di malattia.

L'attribuzione di un prurito o di un'orticaria a un alimento, spesso è scorretta, legata a una tradizione che colpevolizza quello che si mangia attribuendogli tutti i mali.

Comuni cause di prurito sono anche disidratazione, sensibilità eccessiva a strofinamento ("dermografismo", orticaria provocata), o un leggero ipertiroidismo, che si sospetta con difficoltà.

È quello che oggi si intende per medicina olistica?

Il concetto di una medicina che abbracci la persona nella sua interezza è ottimo idealmente; purtroppo si sono impadroniti del termine "olistica" i praticanti di medicine alternative prive, a mio modestissimo parere, di qualunque valenza scientifica, che toccano anzi in qualche caso il ridicolo. Si propaganda spesso una pseudo-scienza fatta di parole ma senza retroterra culturale, che addirittura rifiuta i progressi scientifici: Galileo negato un’altra volta. Quello che dovrebbe fare un internista oggi è mantenere una visione di insieme basata su conoscenze aggiornate, attualmente valide, non su magie o fantasie o invenzioni infondate (cromoterapia, iridologia, aromaterapia, fiori di Bach e così via sono materia per creduli in grado di rasserenare qualcuno, ma che non guariranno mai niente di serio).

A spingere molte persone verso pratiche mediche fasulle, è forse la mancanza di dialogo con il medico tradizionale, la povertà di componente umana nel rapporto. L’università non la insegna. Il bagaglio del medico, oggi, non la prevede, a meno di eccezioni per merito di personale inclinazione. Il rapporto umano medico-paziente è spesso insoddisfacente.

Inoltre il medico giovane, benché preparato dall' Università meglio che nei decenni passati, ha però di una generale propensione ipertecnologica e ha abbandonato la semeiotica (rilievo dei segni fisici), raramente visita il paziente come si faceva (sistematicamente) qualche decennio fa e il paziente stesso (il cambio di metodo e di aspettative coinvolge tutti), non si aspetta di essere osservato, palpato e auscultato ma chiede se è meglio una tac o piuttosto una risonanza magnetica. Tenendo conto che forse l'80% dei casi che si presentano al medico hanno una componente psicosomatica, o causale o sovrapposta per ragioni emotive o culturali, si può ben capire quanto sia dannosa e controproducente una cattiva relazione medico-paziente e quanto carente una risposta affidata ai soli reperti strumentali.

Da statistiche dei paesi industrializzati, emerge che interrogando in modo appropriato un paziente e visitandolo accuratamente, un buon medico arriva alla diagnosi nel 75% delle situazioni, gli esami di laboratorio e strumentali aggiungono un 20% di perfezionamento diagnostico. La storia del paziente e l'esame fisico, trascurati oggi, sono più importanti della sofisticata tecnologia.

Si occupa anche di dermatologia estetica?

La alterno all’attività più “seria”. È una branca moderna piena di sviluppi. Se praticata con rigore dà risultati clamorosi. Mi piace cambiare. Non credo che sia un male, dà stimoli nuovi. Ho seguito scelte libere e preferenziali nelle mie attività mediche, come si fa con gli hobby. Per esempio dipingo per divertimento nel tempo libero, e mi sono dedicato a generi del tutto diversi (nella Firenze del Rinascimento i pittori facevano parte della Gilda dei medici e speziali. Si può concedere che un medico dipinga, spero, senza offendere i veri pittori). Ho molti interessi e anche nell'ambito medico mi è piaciuto toccare settori diversi. Ho letto e studiato molto perché ci provavo gusto, mi piaceva. I testi inglesi e americani erano molto superiori per qualità e aggiornamento ma non si trovavano facilmente nelle nostre librerie scientifiche ai tempi della mia università. Per questo avevo un conto aperto con la libreria Blackwell di Oxford dove, da studente, ero rimasto estasiato dalla quantità e qualità di pubblicazioni e trattati medici. Mi spedivano il catalogo di libri di materie mediche ogni sei mesi e io ordinavo quelli di cui mi interessava il titolo. La riuscita in campo medico dipende dal tempo dedicato, dall'impegno, dalle capacità e attitudini personali; e non si può praticare uno sport a un certo livello se non si ha un fisico adatto e se non ci si allena. Lo stesso è nella pratica medica: una preparazione di fondo, una cultura sostanziosa di base è indispensabile, e a questa va affiancato un aggiornamento continuo. La nostra scienza è inesatta. L'errore è facile, l'insidia è dietro l'angolo. Senza un reticolo fitto di conoscenze, l'esperienza non serve a nulla, le osservazioni nuove non hanno dove attaccarsi.

La medicina estetica, se applicata in indicazioni sensate, è gratificante per il fruitore, che acquisisce sicurezza psicologica e benessere (tutti vorremmo avere un aspetto migliore) e per la vanità – in senso positivo – del medico, che riceverà festeggiamenti calorosi. Se salvate una vita sarete ringraziati con composta riconoscenza, se togliete una ruga o un difetto da un volto vedrete molto più entusiasmo: il medico è acclamato come un campione sportivo.

Ha lasciato da anni l'Ospedale. Come mai?

Sono molti anni, ormai. All'età di 50 ho lasciato dopo 26 anni l'Ospedale. Nei primi anni dopo la laurea mi sono occupato di medicina interna con la fortuna di un'autonomia operativa rara per un giovanissimo, poi sono stato per 16 anni responsabile della Gastroenterologia endoscopica. Ho avuto grandi soddisfazioni, umane e professionali. Negli ultimi tempi però l'aspetto burocratico si era appesantito, l'ampliamento necessario del personale e dei mezzi urtava contro le difficoltà economiche della struttura, sempre più politicizzata. Ho sempre cercato di essere libero nelle scelte, ho un carattere molto indipendente, quasi anarcoide. I contatti strategici e politici non sono il mio forte. Non vedevo buone prospettive per il servizio di cui ero responsabile. Così, ho preferito dedicarmi all'attività nel mio studio soltanto. Il rapporto individuale con il paziente può esser essere molto gratificante: nell'attività libero-professionale si è soli nei meriti e negli sbagli e ho avuto molta gratitudine e riconoscimenti professionali, più di quanto non prevedessi.

E' soddisfatto dell'apprezzamento delle persone che cura?

Un medico che abbia un minimo di personalità non può accontentare tutti, qualcuno sarà scontento. Oltre a "scontenti" fisiologici - spero pochi - non mi sono mancati calunnie e qualche colpo basso anche da colleghi. Penso sia inevitabile in ogni campo la malevolenza di qualcuno. Ma con quasi tutti i medici della mia e di altre città ho un buon rapporto, un'effettiva collaborazione. Negli anni passati, sono stato in contatto e amicizia con colleghi di tutto il mondo. Attraverso i congressi e, negli ultimi anni, con il formidabile mezzo di internet, è stato possibile mantenere aggiornamento, stimolo intellettuale e sentirsi in prima linea anche in un luogo periferico. La maggior parte dei pazienti mi mostrano riconoscenza, soprattutto - credo - per la disponibilità: mi faccio sempre trovare, mi piace il mio lavoro, dedico tempo a chi mi chiede aiuto. La gratitudine mi commuove sempre, basta come compenso di ogni sforzo. Sono contento di aver fatto il medico. Anche lontano dalle grandi carriere, mi sono sentito sempre realizzato. Ho espresso me stesso in modo fedele. Il mio carattere, la mia personalità hanno trovato un terreno dove non si sono snaturati. Se alimentata e corroborata dallo studio e dalla partecipazione emotiva, l'attività del medico è creativa, costruttiva, piena di risvolti conoscitivi e umani. Pur attraverso momenti di grande tristezza per le situazioni penose che si incontrano lavorando nella malattia e amarezza per le delusioni, ci si sente utili, non sprecati. Almeno, questa è l'illusione.

 


Francesco Dallera

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