Ipertiroidismo (o tireotossicosi)

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La madre di Durer, nel famoso disegno che la ritrae (conservato a Berlino), ha l’aspetto tipico da ipertiroidea. Ipertiroideo era Marty Feldman, l’assistente del Dottore nel film di Mel Brooks Frankenstein Junior. La magrezza e i bulbi oculari estroflessi rendono facile la diagnosi, persino a distanza; ma non tutti i casi sono così semplici, in molte situazioni il riconoscimento non è elementare.

La tiroide, ghiandola posta nella parte anteriore del collo, produce un ormone importantissimo per varie funzioni vitali. Sintetizzato sotto lo stimolo di centri collocati nel cervello, l’ormone tiroideo, una volta riversato nel sangue, esercita il suo influsso su tutte le cellule e tutti i tessuti dell’organismo. Grossolanamente, si può così sintetizzare: eccita, sveglia, aumenta la velocità delle trasformazioni chimiche. Se l’attività della tiroide è eccessiva, tutto questo avviene a un livello esasperato e la persona colpita dalla disfunzione è iper-attiva e super-reattiva, eccitabile, ha frequenza del cuore e pressione arteriosa elevate come se fosse di corsa, parla e si muove in fretta, dimagrisce, dorme poco, può avere diarrea, soffre il caldo, suda molto, trema, ha valori di glicemia più alti del normale.

Tiroide ingrandita non significa sempre tiroide che funziona troppo. Il gozzo (questo è il termine antipatico che indica l’aumento di volume della tiroide, ma si può utilizzare un vocabolo più raffinato e più medico: struma) si sviluppa anzi spesso come tentativo di compenso in una ghiandola che non riesce a funzionare, per esempio a causa di mancanza di iodio, componente essenziale nella fabbricazione dell’ormone. E, d’altra parte, le tiroidi superfunzionanti possono avere forma e dimensioni esterne normali. Non si conosce il motivo per cui si instaura l’anomalia di comportamento della ghiandola, più frequente nelle donne giovani; a volte sembra evidente il rapporto cronologico con un trauma emotivo.

Le definizioni classiche, che usano per le malattie i nomi di chi per primo le descrisse, sono: malattia di Graves-Basedow per l’ipertiroidismo con aumento di volume della tiroide ed esoftalmo (bulbi oculari estroflessi); malattia di Plummer per la forma senza segni oculari, in cui un piccolo nodulo (adenoma) nella tiroide è la fonte della produzione eccessiva di ormone. L’identificazione clinica, facile nei casi conclamati – quelli da antico libro di medicina, ora rari perché l’evoluzione della malattia è, di solito, interrotta prima – non è per nulla immediata nelle condizioni più lievi e sfumate, in cui mancano molti dei segni caratteristici. I pazienti con forme lievi possono lamentare uno solo di questi sintomi: stato d’ansia, palpitazioni occasionali, pressione arteriosa saltuariamente alta, sudorazione esagerata, caduta di capelli, turbe dell’umore. L’assenza di dimagrimento e di sofferenza generale, che il medico si attende per sospettare l’ipertiroidismo, a volte lo trae in inganno. Alcuni di questi malati sono curati per anni come nevrotici con antidepressivi, ricostituenti (cosiddetti), ipotensivi e con ogni sorta di farmaci, tranne quelli a loro utili. Indagini funzionali, come il dosaggio diretto dell’ormone nel sangue (da un semplice prelievo), e morfologiche (ecografia, scintigrafia con radioisotopi captati dalla tiroide), permettono una valutazione precisa e la scelta della cura: in genere medica, più raramente chirurgica o, in casi selezionati, con iodio radioattivo, che distrugge le cellule iperfunzionanti. Più spesso la terapia opportuna si attua somministrando farmaci per bocca, sicuri e comodi (compresse da deglutire, tiouracilici o metimazolo, che inibiscono l’attività tiroidea nell’arco di due settimane, associati a beta-bloccanti capaci di contenere i sintomi cardiocircolatori già dal primo giorno). Il controllo del medico deve essere frequente perché l ’aggiustamento delle dosi e il rilievo di alcuni parametri è importante per evitare effetti collaterali: un rischio concreto è quello di far cadere il paziente, con un eccesso di cura, nella situazione opposta a quella di partenza, cioè in ipotiroidismo (modelli di terapia più complessi, per prevenire tale possibilità, prevedono somministrazioni di ormone tiroideo contemporaneamente ai farmaci antitiroidei).

La prospettiva è buona: metà dei pazienti guariscono completamente e definitivamente dopo sei mesi di farmaci adeguati, metà avranno bisogno di più cicli di trattamento. La difficoltà maggiore è tenere a bada e convincere i pazienti che, proprio per la natura della loro malattia, all’inizio della cura sono spesso in preda a grande nervosismo e non sempre seguono fedelmente le prescrizioni, insofferenti a una terapia che funzionerà ma non così miracolosamente come vorrebbero.

 


Francesco Dallera

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