Le stilografiche | |
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Io, collezionista, lo sono ancora di meno: a parte qualche acquisto nel periodo della scuola, mi sono limitato a conservare con affetto le penne che via via mi regalavano, comprese quelle offerte come gadget nei generosi stand dei congressi medici, dalle ditte farmaceutiche, spesso imitazioni delle Montblanc o, altre volte, modelli fantasiosi e stravaganti nel colore e nella forma. Ho iniziato le scuole nel ’52, alle elementari si scriveva ancora con le cannucce e il pennino da cambiare (pennini a forma di mano, di torre ecc. con vari tipi di grafia più o meno elastica, più o meno grossa). Poi, alle medie, si passava alle stilografiche. Oggi, le penne stilografiche sono superate, non le usa più nessuno; solo chi vuole essere sofisticato, chi vuole dimostrare il suo gusto, la sua eleganza in ogni particolare estrae, per la firma, una stilo di valore, di solito una Montblanc. Hanno lentamente sostituito, a partire dalla fine dell’Ottocento, le cannucce con pennino da intingere ogni momento nel calamaio (a scuola collocato in apposito buco sul banco), che a loro volta avevano sostituito le penne d’oca. Sono state a mano a mano esautorate dalle più pratiche penne a sfera (l’invenzione è del 1935, da parte di Lazlo e Georg Biro, fratelli ungheresi emigrati in Argentina, uno chimico, l’altro giornalista, che formularono un inchiostro che non "perdeva". La Bic trasparente a bastoncino è del ’50; più recenti varianti e derivati come le "roller"con inchiostro fluido tendono, come sensazione di scrittura, a imitare proprio le stilografiche). Le penne a sfera ("biro", appunto), scrivono bene senza macchiare, asciugando immediatamente l’inchiostro – indelebile anche se le pagine si bagnano – , non hanno bisogno di ricaricare il serbatoio a ogni piè sospinto e schiacciano bene la firma sulle copie. Ma anche le penne a sfera sono destinate all’oblio, soppiantate dalla scrittura meccanica su computer portatili o palmari che occuperanno tutti gli angoli e non lasceranno spazio a penne "manuali". Comunque, le penne stilografiche di qualità sono bellissimi oggetti e scriverci è un piacere particolare, almeno per quelli come me che ci sono cresciuti insieme. Sono come le fotocamere ottiche, o come i giradischi per il vinile, inesorabilmente sopraffatti dalla comodità e dai vantaggi degli strumenti digitali, eppure difesi strenuamente da un manipolo di nostalgici, che ne esaltano le presunte sfumate superiorità, ma sono in realtà affascinati dalla loro poesia, dall’attrazione estetica e dal sapore della tradizione (l’incanto di un turntable Transcriptor con le emisfere dorate che sostengono il disco, come quello nella camera ipermoderna del protagonista di Arancia meccanica, o la dolcezza di scatto di un Leica a telemetro o la bellezza efficiente e robusta di una Nikon F). Se la stilografica è ormai strumento del passato, coltiviamone il ricordo, tirandole fuori dai cassetti e mettendole in fila per confrontarle e provarle, dopo averle caricate se mancano di inchiostro (le migliori scrivono subito anche se sono inattive da tempo). Io cerco di ricostruire quali ho acquistato e quali mi sono state regalate (una volta erano regali per circostanze importanti e potrebbero esserlo anche ora). L’Aurora 88 della Prima Comunione, bellissima, di linea pura, a ogiva, nera con cappuccio d’argento e pennino carenato, scrittura fine ma facile; un’altra Aurora 88 P un po’ più tarda, con cappuccio dorato. Le esotiche – per i tempi della mia infanzia e adolescenza – Parker. Le Pelikan, che mi hanno accompagnato alle medie e al liceo (Pelikan verde e nera, modello "per la scuola" 1500 Lire), Pelikan tutta nera, Pelikan nera e verde "tigrata" (più costosa, pennino in oro, modello – mi pare – "400"), che, con la loro clip a becco di pellicano dorato, sposando fluidità e finezza di scrittura, tuttora sostengono il confronto con le marche più titolate. Le Waterman, che portano il nome dell’americano che inventò l’alimentatore di inchiostro, dunque vero padre della stilo (1884, mi sembra). Le Sheaffer, marca che vanta il primo modello in celluloide infrangibile (1924?). Ho una Sheaffer d’argento quadrettato – che scrive benissimo – con un bottoncino d’avorio sulla base della clip, regalatami da un prete che curavo quando ero giovane medico, in parure con una biro gemella anche nel pregiato particolare del bottoncino. Poi, le Universal e le Paper Mate (letteralmente "Compagna" – o "amica" – "della carta", con il doppio cuoricino a ribadire il concetto), frequente oggetto di regalo, passando per le italiche Omas e Monte Grappa (ne ho una d’epoca, dono di un amico, con una marmorizzazione antica particolarmente attraente), fino a una Delta, opulenta e sontuosa di un bel colore fulvo nella lacca, con greche d’argento e alle Montblanc, che sono ora, almeno nel nostro paese, le più prestigiose, assurte a status-symbol come i Rolex, grazie a un’accorta pubblicità e alla trovata del fiocco o cocuzzolo di neve esalobato sul cappuccio, che aggiunge un pizzico di indovinata originalità a un’indubbia sobria eleganza. Non sono un fanatico né un collezionista in senso proprio. Conservo gli oggetti che mi piacciono indipendentemente dal valore. A intervalli, le guardo e le provo, riassaporando sensazioni infantili (che Freud considera i maggiori piaceri). Ne confronto l’aspetto e la scrittura. Anche se anch’io, ormai, scrivo tutto quello che mi serve al computer.
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Francesco Dallera |