La mostra di Lugano ha presentato un bel numero di dipinti e disegni significativi di Modigliani, oltre tutto per gran parte conservati in musei giapponesi e collezioni private, dunque poco visibili a noi. L’occasione ha dato spunto a una vecchia dicotomia di giudizi sul pittore, che alcuni disprezzano, proprio come quegli avventori di caffè parigini che rifiutavano di pagare pochi franchi in cambio di un ritratto a matita. Lo stesso Federico Zeri non era un ammiratore di Modì, ne scriveva con sufficienza; e qualche giorno fa, alla radio, ho ascoltato la conversazione di un critico illustre e compiaciuto che lo definiva "edulcorato" e "stucchevole". Secondo questi accaniti avversari della sua arte, Modìgliani è stato un passivo e infantile imitatore di Cezanne, parziale copiatore anche del Picasso meno innovativo, lontano dal genio di entrambi.
A me sembra invece che la sua pittura, sebbene sia indubbiamente manieristica e incline al sentimentale, sia quasi sempre fra le più intense di questo secolo. Che nella semplificazione verso il primitivo sia stato influenzato direttamente dall’Arte Africana pervenuta in Europa, o che abbia mediato la derivazione tramite le opere di Picasso e Brancusi, vi immette comunque una carica di autentica grazia soltanto sua. Nessuno lo supera nel disegno, dalle linee elegantissime che sono in limpida continuità con Botticelli e con i più grandi del Rinascimento italiano. Solo Schiele e forse Klimt hanno, con ispirazioni e sviluppi diversi, una pari forza e bellezza nel disegno del Novecento.
Picasso è grandissimo e sicuro disegnatore, ma non cerca la bellezza e nemmeno l’eleganza, tranne che in quadri sporadici. Le mani di Modìgliani sono fra le più naturali e ben riuscite della storia dell’arte: moderne e di eccezionale qualità sintetica. Il potente carattere di continuità con la tradizione italiana, e fiorentina specialmente, quattrocentesco-rinascimentale, si vede anche nel modellato che, in stesura aggiornata, filtrata attraverso Cezanne, richiama fortemente il modellato di Masaccio, Ghirlandaio, Botticelli o i pochi dipinti non affrescati di Michelangelo (Tondo Doni, tavole della National di Londra). Colto e consapevole, Modigliani doveva sentirsi, e con ragione, l’erede di questi artisti.
I suoi nudi sono tra i più sensuali e commoventi di tutta la pittura. Il più bello è forse quello del MoMA di New York, uno straordinario capolavoro (che non era a Lugano). Quali pitture di nudo femminile possono essere degne di un confronto? La Venere dormiente di Giorgione, con gli occhi ugualmente chiusi e (ma non certo solo per questo) altrettanto poetica; poi, tra quelli celebrati, la Maya Desnuda di Goya, che però a me sembra più volgare nella sua troppo scoperta malizia; la Venere Rokeby di Velasquez (quella tagliuzzata da una suffragetta già turbata dall’idea della donna-oggetto), che mi pare meno raffinata; la Venere di Urbino di Tiziano, ai miei occhi troppo furbesca ed esplicita per reggere il paragone. I nudi dell’Ottocento sono un vero tonfo, così ammantati di ipocrisia perbenista e quasi sempre calati in situazioni pretestuose, goffi alibi per giustificare la nudità. E, personalmente, sono disgustato dalla pittura soffice di Renoir e soprattutto dalle sue grasse popolane rosate, anticipazione e incoraggiamento dei peggiori quadri da piazza.
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Anche come ritrattista Modigliani è ai vertici. Il carattere emerge prepotente appena si guarda il quadro: il timido, l’ottuso, l’arrogante, il perverso, la donna dolce, la sfruttatrice, la sfruttata. Il ragazzo umile, l’adolescente perplessa. Osservato a lungo, il dipinto muove la fantasia dell’osservatore su una moltitudine di dettagli dell’intimità del personaggio. Pochi mi sembrano i pittori anche grandissimi del passato che gli possono essere avvicinati per capacità di lettura così penetrante.
Il problema è se dare o no valore alla dimensione lirica nell’arte; Modigliani mi sembra fra i più intensi in questa direzione. Chi non lo apprezza a me sembra uno snobistico "tough minded" incapace di comprendere. Si insinua che il successo di Modigliani sia legato alla sua leggenda di pittore maledetto, sfortunato, romantico; e così si chiudono gli occhi al fatto che proprio il suo animo aristocratico e anarchico, il suo idealismo puro e ribelle abbia, nell’inestricabile e indefinibile intreccio di rapporti causa-effetto, innescato la spirale degli eventi autodistruttivi fino alla morte precoce, destino così frequente del resto fra artisti geniali e controcorrente. Si sottolinea quanto abbia assorbito da Cezanne, come se Leonardo non avesse acquisito nulla da Verrocchio (i celebri profili prognati delle caricature sono tratti tali e quali dal Verrocchio) o Botticelli da Filippo Lippi; e, quanto a Picasso, c’era, reciprocamente, rispetto artistico (tacito e non ammesso) da un lato, scarsa stima sul piano umano dall’altro, tanto i temperamenti erano lontani. Da Cezanne, Modigliani trae ed elabora il costrutto plastico e il sapore – tutto nuovo – della pennellata, che non è più solo funzionale al riprodurre qualcosa, ma acquista dignità, anima, vita proprie; trasfondendovi un senso del bello, un’armonia, di cui, per la verità, pur con i suoi enormi meriti storici, Cezanne non era dotato. E, visto che si è sulla strada delle dissacrazioni, per non risparmiare nessuno, Picasso, genialissimo, vulcanico, prodigioso rinnovatore, ma duro e freddo, quando vuole esprimere una sensibilità, quando tenta di essere tenero, allora – lui sì – diventa melenso e svenevole, come nei dipinti del periodo blu, o incline alla retorica, come in Guernica.
Ciascuno colloca secondo un criterio soggettivo, dove vuole, il confine fra sentimento e sentimentalismo. Per me, trovo che chi considera affettati e patetici gli occhi vuoti di Modigliani, dovrà avere lo stesso concetto degli sguardi indefiniti di Giorgione, che sono sulla stessa linea, e che non possono essere compresi da chi non concepisce guardare dentro se stessi, interrogarsi. Allora, ogni volontà poetica è sospetta; sensibilità, delicatezza d’animo, capacità di emozionarsi e di emozionare, portano fuori strada, sono pericolose, si può deriderle. Per restare nell’ambito della pittura a olio, se Roger van der Weyden non fosse onorato dal tempo e troppo nordico per entrare nel terreno di caccia di questi critici impauriti dal sentimento, si prenderebbe certamente l’accusa di essere troppo sdolcinato: semplicemente perché, nelle sue tavole, c’è autentico, profondo pathos.
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