Morandi noioso?   Considerazioni su artisti di questo secolo

<<Torna all'indice



Morandi è uno dei maggiori pittori italiani del secolo, giustamente affermato a livello internazionale. Pittura tonale di alto livello, sottigliezza di variazioni, eleganza contenutistica e formale. Se vogliamo dire le cose fino in fondo, però, bisogna ammettere che è un po’ noioso e che una ripetitività ossessiva e quasi ottusa è il suo limite. Il dubbio di cadere nella pedanteria non lo sfiora. Basta osservare la firma, infantile e diligente, e confrontarla con quella – diciamo – di Picasso o di Rembrandt per capire quale doveva essere il suo carattere: ottima persona, artista sensibile, ma una vacanza con lui non sarebbe stata molto divertente, forse. Ci sono artisti che, trovata una formula, ne sono appagati e non vogliono più cambiarla. Ciascuno è com’è, però, personalmente, trovo strano che non abbia sentito il bisogno di provare qualche variante. Si dirà che nella staticità, nell’immobilità, nella severità delle cose dipinte è il senso della sua pittura e chi non comprende questo, non comprende Morandi. Ma sarebbe stato così tremendo provare a cambiare, introdurre una nota diversa, un oggetto nuovo? Che voto merita Morandi in fantasia?

Picasso è certo un grande genio, nove persone su dieci e diciannove critici su venti direbbero: il più grande del Novecento. La sua continua evoluzione, la sua fantasia, la sua capacità di rinnovarsi fornendo prodigiosi stimoli a tutti, hanno pochi uguali, forse nessuno, nella storia dell’Arte. La personalità più vicina è – penso – Tiziano: qualità straordinaria, una recettività come una carta assorbente, tuttavia sempre attiva, in grado di percepire il significato più profondo della proposta e di affermarla secondo un proprio indirizzo, e poi ideazione capace di ripartire con nuove, nuovissime idee, magari ancora mescolandole e integrandole con altre sollecitazioni. Tiziano ha compreso Giorgione ispirandosene per i primi dipinti, pareggiandone sostanzialmente il livello anche lirico, tanto che ne sono venute dispute infinite sulle attribuzioni, poi ha avuto il periodo centrale di colore pieno, atmosfere meno rarefatte, più consone alla sua personalità pragmatica e concreta – più fredda di quella di Giorgione – per finire con quadri giallastri terrosi di sapore modernissimo in un’elaborazione personale di stimoli ricevuti – si può presumere – dall’osservazione di Tintoretto; influenza, questa, poco rilevata dalla critica, ma, a mio avviso, piuttosto evidente. Picasso, avvantaggiato dalle inquietudini e dalle libertà formali del suo secolo, ha percorso ancora più strade. Nel periodo blu e rosa assorbe la maniera di Cezanne, che dà valore alla pennellata in sé più che al soggetto da riprodurre; ci mette, di suo, contenuti tardo-romantici strappalacrime, saltimbanchi e clowns e allampanate figure umane tristi, da piagnisteo, che, sebbene originali sul piano pittorico, costituiscono un passo indietro rispetto a Cezanne stesso (Cezanne è più rigoroso nel gusto e nelle scelte di soggetto). Poi inventa il Cubismo, a quattro mani con Braque, in un gioco imperscrutabile e inestricabile di influenze reciproche, in un’identità di produzione che spesso si verifica nei sodalizi d’arte, come conseguenza di potenti stimoli comuni e di vicendevoli cariche. Il Cubismo ha enorme importanza sulla pittura successiva. Nella fase definita "analitica" è cerebrale, privo di passione e mostra una disinvoltura intellettuale al confine con l’arbitrio (le sfaccettature non hanno regole, sono gratuite). Il Cubismo "sintetico" diventa più caldo, più morbido e gradevole; persa la carica di rottura, può permettersi una certa ricerca del bello. Nei primi anni Venti (soggiorno in Italia) Picasso ha la tentazione di dipingere quasi come un classico: nei ritratti della sua donna, del figlio vestito da Arlecchino l’unica nota di modernità è il "non finito"; questi ritratti sono anche, per come li vedo io, i quadri di Picasso più "caldi", sicuramente rivelatori di una partecipazione emotiva. Nel frattempo con la sua grande capacità di mutazione, in senso centripeto quanto in senso centrifugo, con il suo occhio furbissimo, coglie da Sironi e Carrà il suggerimento delle figure classicheggianti, monumentali, gonfiate, immettendovi (soprattutto rispetto a Carrà) una bella dose di classe, mostrando di aver saputo impadronirsi – diciamo pure copiare – la loro idea di uno stile che richiami anche nella stesura gli affreschi italiani del XIV e XV secolo: un influsso indiretto e diretto, perché allo spunto da Carrà e Sironi si sarà, naturalmente, aggiunta e allacciata la visione di persona degli affreschi e delle tavole di Giotto, di Masaccio e di Piero, che Picasso interpreta in un colore più limpido, come già rinfrescati da un restauro moderno, piuttosto che nel timbro cupo che caratterizza la traduzione letterale di Carrà e Sironi (affreschi e dipinti sporchi). Deve essere stato, per un genio così vorace, un turbinio, uno stordimento di novità visive tutte da sfruttare. E infine i suoi quadri più tipici forse, il punto d’arrivo del suo stile, quelli con la trasposizione degli occhi e dei nasi, con le mani ad artiglio, per i quali ha attinto dagli espressionisti elaborando da par suo i suggerimenti di violenza figurativa, alcuni dei quali però (i ritratti delle sue donne) sono dolci e mostrano la sua padronanza dello sfumato, rappresentando una straordinaria sintesi di cultura pittorica, d’inventiva nel disegno, di propulsione giovanile e fresca, di disponibilità al buon umore con un tono stilistico sostenuto che difende dal rischio della caricatura. Con Picasso certo non ci si annoia.

Eppure davanti a un suo dipinto, a un suo disegno, pur nell’ammirazione, non mi sono quasi mai sentito emozionato: Picasso è freddo. Forse era un uomo arido e prepotente, dittatoriale e un po’ crudele, un organizzatore delle sue invenzioni poco incline al sentimento: quando vuole esprimere sentimento cade nel sentimentalismo, come nel piagnucoloso periodo blu. Guernica è una rappresentazione esteriore: ci si deve inchinare al messaggio e alla denuncia, ma non c’è molto al di là della retorica. Solo nella rappresentazione dei famigliari, delle donne amate, riusciva a "sentire" senza finzioni. Non era altrettanto sensibile al colore quanto istintivo e dotato nel disegno. Raramente il colore è toccante, malgrado la sua qualità e il suo professionismo rendano sfuggente e meno diagnosticabile questa verità.

Più raffinato, sempre più controllato da un assoluto senso del bello è Paul Klee (anche se un famoso critico lo considera artista per neofiti, cioè che piace a chi non è iniziato all’Arte Contemporanea): esempio di pittore spontaneo ma veramente colto, e di cultura estesa, non solo riferita alle arti visive. Costantemente ispirato da una poesia sempre mediata dall’elaborazione culturale. I suoi dipinti sono per lo più gioiosi, e trasmettono un messaggio profondo; sempre toccanti con immediatezza, tuttavia pensati e intimamente elaborati. La combinazione di disegno semplificato e colore meravigliosamente magico produce un effetto di sogno o visione, una sintesi di massima modernità che include tutta la storia e le radici dell’arte. Se Picasso esercita un influsso molto più esteso e ha una posizione storica maggiore, per la mia sensibilità il risultato artistico nell’opera di Paul Klee è più alto. Entrambi hanno avuto una produzione enorme: Picasso non raggiunge mai i livelli poetici di Klee, e ha momenti mediocri che Klee non ha in nessun punto. Klee è più rigoroso, più istruito, più poeta, più sensibile al colore, più capace di provare emozioni e di trasmetterle; è meno retorico, più fine intellettualmente, più incline a un sentimento sincero. Privo di ogni risvolto volgare o greve o appariscente, è certo più elitario. Picasso ha utilizzato schemi e tecniche altrui molto più di Klee, sebbene la sua capacità metabolica e il suo genio abbiano mascherato la quantità di informazioni e stimoli attinti dagli altri. Klee, a parte i lavori della Tunisia (sovrapponibili a quelli degli amici di viaggio e di esperienze, su un terreno di partenza comune a tutti gli espressionisti di area germanica) e gli influssi del Cubismo stesso, utilizzato come espediente in una misura nettamente estetica ed elegante, è, rispetto a Picasso, non meno originale e personale, nelle invenzioni e nelle soluzioni. Quello che più conta davanti a un’opera, la sensazione di bellezza nel primo impatto emozionale, è, per me, puntuale e massima con Paul Klee, con un effetto rinforzato dai dettagli, come la ricercatezza nei supporti dei dipinti, nelle tecniche, nelle cornici create con cura e, infine, anche nei titoli che – cosa rara nella storia dell’Arte – rinforzano anziché sminuire l’opera.

Modigliani ha estimatori e qualche denigratore: Federico Zeri lo considera sdolcinato, e dichiara che Soutine gli è superiore come pittore. C’è un’intensità di sentimento nella pittura di Modigliani che non è compresa da chi non ha sintonia su questa lunghezza d’onda. C’è chi si commuove per una storia e chi ne ride. Gli "happy few" di Stendhal non sono semplicemente e genericamente coloro cui interessa l’arte. È inutile farne un problema dialettico: non c’è un metro obiettivo per collocare il limite fra sentimento e sentimentalismo. Qualcuno comunque considera patetica la rappresentazione di Modigliani: forse perché a volte le figure hanno i colli inclinati di lato. Soutine è stato pittore degno di nota, la sua opera sanguigna e grumosa è moderna e piena di talento, semplicemente è altra cosa rispetto alla raffinatezza colta e poetica di Modigliani. Le testimonianze dell’epoca ci raccontano che Soutine, goffo campagnolo timido, era protetto e difeso da Modigliani che amava la sua semplice compagnia più che quella dei personaggi di spicco della Parigi del tempo, dominata da Picasso e dalla sua cerchia. Vi sono aree nelle quali nessun artista supera Modigliani: eleganza del disegno, per esempio. Nel nostro secolo solo Schiele e Klimt possono competere con lui per il tratto grafico. Picasso è fantasioso e dotato, ma assai più greve; nel periodo blu e rosa, dove vuole essere tenero, è – lui sì – davvero sdolcinato. Le mani di Modigliani sono meravigliose, una sintesi moderna: espressive e perfette; non sono mai incerte, non hanno difetti, sono elegantissime. Grande è, inoltre, Modigliani come ritrattista. Il curatore del catalogo della National di Washington, già direttore della galleria, John Walker, afferma, nel capitolo su Modigliani, di considerarlo il miglior ritrattista del Novecento. Non è difficile essere d’accordo (sebbene Schiele gli stia alla pari come artista e anche come ritrattista sia sublime) e ci si può spingere a confrontarlo con pochi del passato.

[Van der Weiden, con le sue donne quattrocentesche velate come suore, che escono dal quadretto vive come da una finestra; pitture che danno i brividi e che possiamo vedere a Berlino e Washington. (Anche a Londra, però, c’è, alla National, un ritratto che sembra di Van Der Weiden, attribuito a Campin, forse per assegnare qualcosa a questo misterioso maestro: oltre alla rassomiglianza stilistica spiegabile con l’epoca e il rapporto di scuola, in questo dipinto le nocche delle mani sono così caratteristiche e uguali alle altre donne di Van der Weiden, che è facile pensare siano dello stesso pennello).

Leonardo ha eseguito pochi ritratti, tutti ai vertici della pittura: quello che io preferisco è la Ginevra Benci, avvantaggiato sulla Dama con l’ermellino dallo stato perfetto di conservazione e forse dalla collocazione museale, su uno sportello rotante (si può muoverlo! Miracolo di fiducia nei visitatori dei Musei americani), che permette l’osservazione (l’ammirazione) a distanza ideale e da tutte le angolazioni di luce. Lo sguardo stupito, giovane e leggermente corrucciato, è di un’intensità indimenticabile e, anche se non abbiamo visto il modello, siamo sicuri che la rassomiglianza e la penetrazione psicologica sono senza uguali. Ma anche La Dama con l’ermellino e La Belle Ferroniere – forse la stessa donna a dieci anni di distanza, un po’ ingrassata, meno inquieta, più saggia, ma con lo stesso lampo negli occhi – hanno una bellezza e una densità espressiva che lascia senza parole. La Dama della tavoletta di Cracovia, in particolare, ha una sfumatura di volubilità e cinismo commista a profondità di sentimenti e vivacità intellettuale, una nota di pragmatismo, un che di leggerezza, di imprevedibilità, di dispotico capriccio muliebre, che sintetizzano una conoscenza psicanalitica folgorante di certi caratteri femminili, forse i più temuti e acutamente avvertiti da Leonardo nel suo sofferto universo esistenziale, sessuale e sentimentale: questa donna giovanissima è intelligente, pensosa, sociale, salottiera e brillante, ma determinata, senza scrupoli all’occorrenza, e, per altro verso, maliziosa e a sua volta conturbata e con una personalità sottilmente morbosa.

Van Eyck è un ritrattista eccezionale: la qualità immensa della sua pittura si trasfonde completamente anche nei ritratti, da quelli piccoli fini a se stessi (a Berlino, Londra, Vienna, Bruges) a quelli nell’ambito di opere più complesse (il Cancelliere Rolin al Louvre, donatore nel polittico di Gand, I coniugi Arnolfini a Londra); quanto siano rassomiglianti oltre che intensi, lo possiamo verificare dalle ripetizioni: il Cardinale Albergati identico nel dipinto di Vienna e nell’ancora più splendido – - se possibile – disegno a punta d’argento di Dresda. Grandi ritratti hanno eseguito Giovanni Bellini, Antonello, Giorgione, Tiziano, Tintoretto, Van Dick, Velasquez, Goya e – naturalmente – il gigante del ritratto, forse il più commovente, perché dipinge se stesso con fedeltà cruda nel progressivo invecchiamento: Rembrandt; ma Modigliani , per vivezza, penetrazione, fascino, può competere con tutti.]

Tornando all’arte contemporanea, fra i pittori consacrati, non mi piacciono per niente Kandinsky e Chagall. Kandinsky ha il merito di essere stato il primo astrattista, ma proprio nei dipinti astratti è, a mio giudizio, dissonante e arbitrario, dispersivo e irritante. Quanto a Chagall, lo trovo accettabile fino agli anni venti, nei quadri nostalgici della sua terra, dove mescola un lirismo sensibile nel colore (belli i verdi profondi) e in alcuni particolari cesellati (di sapore decorativo radicato nella storia artistica medioevale e pre-rinascimentale), all’impiego dei modi cubisti (utilizzati però sempre con finalità decorative, non strutturali). Poi, diventa fastidioso, con un disegno sfatto, figure di scala diversa accostate in tutta anarchia, facce rovesciate, galli e polli e teste di asino, ali appiccicate a orologi, ricerca voluta di infantilismo esagerato e grottesco, disordine di stile intemperante e sciatto all’interno dello stesso dipinto; un mondo onirico, certo, ma se questi erano i suoi sogni, non mi piacciono: il risultato, su di me, è un senso fisico di nausea. Le tematiche ebraiche mi sembrano ispirate da una furbesca intenzione di impressionare i meno esigenti fra i ricchi ebrei americani, ben disposti a darsi una patina culturale con un pittore alla moda che consente un legame con la tradizione (Mosè riceve le tavole della Legge, Il passaggio del mar Rosso), piuttosto che da una vera pulsione religiosa, e gli slittamenti nei temi cristiani (Resurrezione) o addirittura ibridi (L’Esodo, che ha un grande Cristo sullo sfondo) sono un’aggravante. Temi degnissimi di essere affrontati, ma che mi sembrano risolti con audacia soltanto apparente, di superficie, che vela una realtà artistica povera e puerile. Riconosco a Chagall il pregio dei blu e dei verdi, conservato nei quadri della maturità, oltre a un’indubbia riconoscibilità. Mi sembra poco. Ma oggi, chi osa dire di un simile mostro sacro che non vale niente? Insomma, se trovassi in soffitta (!!) un’opera di Kandinsky o Chagall, la venderei subito. Per comprarmi altri numerosi e più desiderabili quadri con il pingue ricavato.

Invece un infantilismo ricercato che incontra completamente il mio gusto è quello di Dubuffet: mi soddisfano sia i dipinti a stesura sottile (le mucche nei prati verdi), sia, ancora di più, quelli materici grigiastri e bruni, con il gesso e il catrame (figure umane, fantocci). Dubuffet dichiara di trarre spunto dai bambini e dai matti: ma che classe, che vibrazioni. Le opere del secondo gruppo, quelle incise, di materia spessa, sono di apprezzamento più difficile. Ci sono pittori facili da leggere, anche troppo, come Renoir e Boldini. La facilità di lettura è la sola qualità, a mio modesto parere, che ha decretato il loro successo. Mi sembra infinitamente più raffinato un pittore che offre una lettura difficile, se ha il valore e lo charme di Dubuffet.

 


Francesco Dallera

<<Torna all'indice