Omeopatia, teorie mediche e medicina fasulla

<<Torna all'indice



In nome della medicina (anche, naturalmente, della medicina ufficiale), si sono perpetrate nefandezze logiche e morali di ogni genere. Il Pontefice Giulio II, quello con la barba ritratto da Raffaello, curava i dolori artrosici o gottosi e le emorroidi con unguenti in cui erano stemperati lombrichi insieme a latte di donna e olio di rose. I memoriali del Settecento citano diete divertenti e improbabili come cura di malattie infettive, veneree e di malesseri di varia origine. Il sangue di bue era impiegato per le fratture, i salassi fino all’Ottocento per ogni sorta di malattie, incluse quelle che ne potevano avere più danno, come svenimenti o anemie. Evitare i medici ufficialmente titolati si traduceva, a volte, in un vantaggio, come per Chopin che, tisico, si risparmiò almeno i salassi e si allungò forse la vita aggirando cattive cure. Era una medicina approssimativa, caratterizzata dall’arbitrio e dalla fantasia gratuita; si impiegavano rimedi senza prove di efficacia, e l’effetto apparentemente favorevole, quando presente, era, il più delle volte, solo psicologico. Ridiamo delle cronache più colorite, ma (parlo a titolo personale – è ovvio) seguire oggi l’omeopatia o le cosiddette medicine alternative ci riporta nelle stesse condizioni: arbitrio, capriccio, invenzione priva di substrato, affermazioni basate su teorie campate in aria, con riscontri approssimativi o unicamente aneddotici. Leggendo le prescrizioni, la fraseologia, i trattati anche recenti di omeopatia, ho la sensazione di un’atmosfera anacronistica, quasi di una caricatura del linguaggio medico. La scienza è progredita vertiginosamente e le idee scientifiche invecchiano in fretta. Lombroso solo un secolo fa voleva misurare in lungo e in largo il cranio di Tolstoj (che rifiutò sdegnato), persuaso che i geni e i criminali avessero, ai due estremi, patologie somatiche documentabili. Lombroso era uno scienziato serio, un professore dell’Università di Torino, stimato nell’ambiente accademico, un pensatore alla moda. Chi darebbe credito oggi a uno studioso che voglia rilevare l’antropometria di Woody Allen o di qualche famoso scrittore? Il pregio della medicina occidentale è la verifica delle ipotesi e delle scoperte: teorie, farmaci, terapie, sono sperimentati a lungo e attraversano il vaglio di esperti, secondo canoni prestabiliti, prima di essere ammessi nell’uso. Certo, ci sono state truffe, corruzioni e inganni che hanno scosso la certezza della gente sulla bontà del metodo; altre volte è l’ignoranza dei medici che applicano malissimo regole giuste a produrre terribili esiti. Ho fatto in tempo a veder prescrivere, trent’anni fa, gli estratti di placenta, i "sieri" antilinfatici (un termine privo di senso) o addirittura le trasfusioni di sangue a scopo ricostituente; cure ridicole o pericolose, epigoni di consuetudini ottocentesche, che suscitavano già decenni fanironia o ripugnanza nei medici aggiornati e sensati. Ma l’incidente, lo sbaglio, il cattivo esempio, il cattivo medico, i residui di paleontologia terapeutica, un Ministero della Sanità in ritardo (come era prima della riforma sui farmaci e della scrematura dei prodotti inutili), l’esagerata sperimentazione animale con crudeltà inutili, la malasanità sbandierata in prima pagina, le infezioni ospedaliere o trasmesse dai dentisti e dai chirurghi per sterilizzazione inadeguata, non devono essere attribuiti a difetto strutturale di tutta la scienza: sono, anche quando numerosi come nel nostro paese, fenomeni contingenti, devianze, errori da sorvegliare, segnalare e modificare. Con il progresso oggi sappiamo meglio, dei nostri mezzi, quali sono ottimi e quali meno buoni, quali risultati dobbiamo aspettarci, e quali sono, almeno in una previsione statistica, i rischi a fronte dei vantaggi quando mettiamo in atto un tentativo di cura.
Esistono settori in cui i successi della tanto esecrata medicina occidentale, della scienza ortodossa, sono stati miracolosi: miracoli – visti nell’ottica di un osservatore della generazione precedente – sono i risultati di certe operazioni chirurgiche, le tecniche di anestesia, l’eliminazione di calamità sociali con i vaccini, la cura di malattie infettive mortali grazie ad antibiotici che le guariscono in pochi giorni, la scomparsa definitiva delle ulcere peptiche che, fino a pochi anni or sono, invalidavano, obbligavano a interventi rischiosi, causavano perforazioni ed emorragie e aumentavano la mortalità di chi ne soffriva; per non parlare degli innumerevoli farmaci sintomatici, come gli analgesici, che migliorano la qualità di vita e alleviano le sofferenze di migliaia di persone, e dei derivati cortisonici, che salvano molti, pur rimanendo antipatici a tutti. Tuttavia, ai privilegi ci si abitua subito e, fatto un balzo avanti, non si riflette sulla condizione di pochi anni prima.


L’omeopatia ci fa tornare a due secoli fa, con argomenti e metodiche che fanno sorridere. Avete mai visto una malattia grave, importante, potenzialmente mortale, modificata dall’omeopatia? Perché nessuno si affida all’omeopatia per una peritonite o una polmonite febbrile, per un grave collasso circolatorio, per una tromboflebite profonda, per le coronarie ostruite o anche solo per i dolori violenti di un’artrite gottosa acuta? Il grande terreno di conquista dell’omeopatia – come di tutte le medicine definite "alternative" – è quello dell’ansia, della nevrosi, dell’ipocondria minore, delle cosiddette allergie (perché nel calderone delle allergie si mette ogni sorta di malessere che con la vera allergia non ha niente a che fare) e dei sintomi che hanno una forte componente psicosomatica, come certe dermatiti mal definibili o disturbi gastro-intestinali da disordini della motilità: lì, infatti, può agire con più efficacia la suggestione, e allora, purché ci si creda, un’aura magica può essere il rimedio migliore. Forse in questo è difettosa la nostra medicina: trasmette tante insicurezze con troppe spiegazioni, e quando questo limite si mescola con errori, ingenuità, sgarbi individuali del medico, lo scollamento dal paziente è facile. Un foglietto illustrativo del farmaco zeppo di effetti collaterali e pericoli non è incoraggiante, piuttosto terrorizza: meglio allora – pensa qualcuno – l’illusoria ma tranquillizzante rassicurazione di uno pseudofarmaco che non ha, magari, alcuna azione chimica, ma sarà assunto volentieri perché è descritto come infallibile, attivo in tutti i sintomi (tipica dei farmaci omeopatici è una grande polivalenza, un’abbondanza di benefici che sembra studiata per soddisfare ed illudere) e, come vantaggio supplementare, privo di azioni indesiderate, in quanto "naturale".


Hahnemann, teorizzatore dell’omeopatia, era un vorace studioso e, alla fine del Settecento, il suo livello scientifico era, per i tempi, apprezzabile. Ma chi segue l’omeopatia ora, è rimasto allo stesso livello, fuori del nostro tempo. Leggendo il Repetitorium Omeopatico attuale, si rimane sorpresi dal candore antiquato con cui i farmaci sono descritti e presentati; sembra non ci sia stata evoluzione, che si sia cristallizzata la conoscenza qualche secolo addietro. Probabilmente la capacità di osservazione di Hahnemann lo portò a identificare alcune sostanze attive su un numero di sintomi o malattie, pescate nella tradizione popolare e ben scelte in virtù della sua perspicacia, ma verificate nel modo approssimativo permesso dalle conoscenze di quei tempi. Invece, la teoria che gli parve unificatrice, la parte filosofica del suo sistema, l’interpretazione generale, quella del "simile che cura il simile" e delle diluizioni, non ha – penso – alcun valore. Era un costrutto logico sostenibile a quell’epoca, smentito successivamente. La stessa lettura dei vaccini come esempio di rimedio omeopatico, argomento-spunto della teoria, è un equivoco, ma, a quel tempo, Hahnemann non poteva avere nozione degli anticorpi e della stimolazione immunitaria. Nell’Ottocento, in alcuni settori, la medicina omeopatica – probabilmente per merito di attente, per quanto casuali, osservazioni empiriche – aveva un senso; ora non si pone il confronto con la medicina occidentale, la nostra, se non altro per ragioni metodologiche, per il diverso cammino che hanno seguito le due branche. Solo da poco si è avanzato il problema di verificare i rimedi dell’omeopatia con indagini a doppio cieco, le sole che possono far giustizia di ogni pregiudizio, in un senso o nell’altro; tutto è possibile, ma le affermazioni degli omeopati sono state, per troppo tempo, poco scientifiche o addirittura antiscientifiche; e un’affermazione non provata è, sul piano medico, una forma di dogmatismo. Anche la nostra medicina è partita da tradizioni popolari e osservazioni casuali; gli stessi antibiotici sono nati così. Ma il chiarimento dei meccanismi, le acquisizioni di biochimica, la stretta verifica numerica dei risultati, l’hanno portata su un altro piano, così come la scoperta degli ormoni, delle vitamine, dei fattori carenziali – da cui sono nate le terapie sostitutive – e dei farmaci recettoriali, che, su basi di biologia molecolare, il laboratorio costruisce chimicamente complementari ai bersagli da colpire.
Perché allora tanti credono nell’omeopatia e assicurano di averne tratto beneficio? Perché un terzo dei medici europei la pratica almeno in qualche occasione? Serpeggia un confuso, contraddittorio sentimento di insoddisfazione per la medicina convenzionale, che senza dubbio è imputabile alla perdita di valori umani che la tecnologia spinta ha trascinato con sé. Ammiriamo tanto alcune soluzioni brillanti della nostra scienza di punta, ma vediamo che i medici spesso sono disattenti e inadeguati al dialogo, hanno fretta, non sanno ascoltare; non considerano le piccole malattie, sono freddi. Le strutture sanitarie sono anonime, asettiche sul piano dei rapporti; i malati hanno un numero più che un nome, ma i turni di guardia tolgono il nome persino ai sanitari e ai paramedici, che si alternano nelle corsie e negli ambulatori secondo ritmi che, se garantiscono l’interscambiabilità tecnica, non offrono il calore umano – insostituibile – di un rapporto personale (ogni pietà sembra soffocata da regole tecniche e ogni decisione suggerita dall’intuizione emotiva e dalla simpatia è impedita dai protocolli diagnostici e terapeutici). Per questo, specialmente se i sintomi continuano, alcune persone polarizzano le posizioni: trovando sgradevole un aspetto della medicina tecnologica, la rifiutano tutta e cercano qualcos’altro. Anche il medico arriva, in alcuni casi, a mordersi la coda: giudicando difettosi i mezzi a disposizione, preso dai dubbi sull’efficacia del proprio lavoro, invece di fare il possibile con gli strumenti di cui dispone, cercando magari di studiare e pensare di più, di imparare ed elaborare meglio, accoglie – e propone a sua volta – soluzioni filosoficamente diverse, con un’improvvisazione che getta alle ortiche, in blocco, i suoi studi e gli ultimi duecento anni di prezioso metodo galileiano. In altre parole, questi medici sono loro stessi vittime di una crisi di identità; avvertono, senza trovare risposte, le contraddizioni della scienza che hanno appreso e si rifugiano per primi nel paradosso di un’anti-scienza o di una versione puerile e antistorica della scienza. (Altre volte la spiegazione dell’adesione medica a scienze non convenzionali è più prosaica e calcolata: ricerca del successo, che nei canali ufficiali è più difficile, sfruttamento della buonafede del pubblico, ambizione ad un ruolo distinto nell’omogeneità del panorama professionale). Da parte dell’utente, la scelta omeopatica, quando non è il semplice prodotto dell’ingenuità, corrisponde a una costellazione di umori su una linea comune (con eccezioni non spiegabili in questa chiave, come le simpatie omeopatiche della Regina d’Inghilterra): inclinazione anticonformista, con un sapore di contestazione, vagamente antimodernista, catastrofista sulle conseguenze del progresso; tendenzialmente irrazionalista. L’utilizzatore tipico, come lo vedo io, confonde spesso le giuste critiche ai risvolti negativi dell’industrializzazione e della modernizzazione, con la necessità di odiare tutto il progresso, accompagnando questo atteggiamento a un connotato nostalgico per il passato; altre volte segue una moda snobistica, dà un segnale di voluta stravaganza, dicendo: "Io non seguo l’onda". Chi si affida alle cure omeopatiche, se non è ignaro e occasionale seguace di un amico consigliere, se è consapevole della scelta, è facile che ami le diete macrobiotiche, la soia, le altre medicine "naturali", le coltivazioni biologiche, il sapone di Marsiglia, i Verdi, i nodi di Hartmann, e sia convinto che il gatto "senta" i campi magnetici; cose valide magari in parte, ma che non elevano automaticamente chi le sostiene a depositario della verità solo per una scelta di bandiera e piuttosto meritano di essere discusse e verificate una per una (se una è valida, non per questo sono valide tutte le altre del medesimo schieramento; uno schieramento che si attribuisce valori di sensibilità, che ricerca l’"Incontaminato"). Un’idea che diventa ideologia, impedisce la critica e ostacola l’equilibrio della ragione. Così, è vero che la medicina convenzionale, detta "allopatica", ha difetti, è trionfalistica e non risponde a tutte le esigenze; che la sua applicazione è, in certe situazioni, errata e disonesta, che non si contano gli esempi di sfruttamento economico, che l’utente comune ha ragione di temere esami invasivi e impropri, ricoveri inutili, eccessi di terapia; ma da questo non consegue che la medicina che le si contrappone con il nome "omeopatica", sia migliore e ne corregga i vizi. Anzi, ferme restando le critiche alla prima, niente vieta che la seconda possa risultare, in molte circostanze di esercizio, una presa in giro.

Le contraddizioni e gli interrogativi impliciti in tutto quanto detto, hanno – credo – una risposta, un bandolo già espresso fra le righe: l’importanza enorme della psiche nel benessere e nella genesi-scomparsa di sintomi e malattie. Dove la componente psicologica è rilevante, in quelle persone o in quelle malattie dove lo è di più, a patto che vi sia fiducia, in percentuali fino al 40% la cura – qualunque cura (anche un placebo, una sostanza inerte) – basta al miglioramento o alla risoluzione del problema. I medici che hanno abbracciato le medicine cosiddette alternative sono forse, per la loro scelta, più attenti a questa dimensione rispetto alla media dei medici convenzionali, aumentando così il tasso di empatia e dunque di efficacia del loro rapporto; dall’altro lato, pazienti che hanno avuto cattive esperienze con il medico tradizionale possono decidere di cambiare non solo medico ma tipo di medicina e la loro carica di fede può essere rinnovata dalla novità e corroborata dalla partecipazione personale dimostrata dal medico "alternativo". Nelle Università occidentali, non si insegna quasi nulla sul rapporto umano fra medico e malato; l’atteggiamento rispetto alle altre medicine è di scherno e di non considerazione; si dà per scontato che soltanto superficialità, credulità e ignoranza siano le ragioni del successo delle medicine alternative, senza analizzare l’insegnamento che proprio da questo successo dovrebbe derivare, senza guardare almeno al fenomeno sociologico. L’antico fascino della magia, dell’esoterico, certamente spiega molto del plauso per l’omeopatia, ma un’interpretazione più sottile e complessa, un approccio più profondo – disincantato e aperto – sono preferibili e necessari.

 


Francesco Dallera

<<Torna all'indice