Picasso a Milano 2001

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La mostra al Palazzo Reale, 2001, è occasione per riflettere ancora su Picasso. Ogni raccolta di sue opere, che sia il museo di Parigi o quello di Antibes o di Barcellona o una mostra importante, finisce col trascinare l’osservatore in una travolgente atmosfera di vitalità, coinvolgendolo di solito nell’ammirazione per una personalità tanto ricca e versatile. La continua capacità di rinnovarsi e di trasformare lo stile restando sul vertice dell’avanguardia, da venti a oltre novant’anni d’età, stupisce chiunque e trasmette buon umore e ottimismo. Il rispetto e il riconoscimento di enormi qualità non impedisce però qualche osservazione di altro genere.
Picasso è piuttosto freddo. La sua dimensione è prevalentemente intellettuale: giocosa, umoristica, o cerebrale. Il sentimento è quasi assente, tranne nei ritratti delle sue donne e dei figli, forse. Dove cerca la rappresentazione del sentimento, riesce melenso, come nei periodi blu e rosa (pochissimo presenti a Milano, con vantaggio). Nelle opere dal 1906 in poi non cerca quasi mai un effetto gradevole, tranne che in sporadici quadri segnalati dalla presenza di azzurri (dal celeste al blu Cina), disseminati con parsimonia nel periodo del cubismo sintetico (Violino con carta da musica del Museo Picasso, presente alla mostra), e, ancora più rari, negli anni successivi; più spesso, anzi, sembra addirittura cercare lo sgradevole: in molti dipinti a partire dalla fine degli anni trenta, ripetuti con variazioni fino alla fine, quelli con dislocazione di occhi e denti (riconosciuti come picassiani anche dai più ignari di arte), a volte sembra mirare a un effetto equilibrato, altre si direbbe compiaciuto di inorridire lo spettatore, in un atteggiamento da monello che vuole spaventare con un versaccio o una trovata. La disinvoltura è un aspetto ammirevole e divertente, e Picasso ne ha fatto una bandiera fin dalla giovane età; certamente il successo precoce, la ricchezza, il corteggiamento dei mercanti e gli applausi devono avergli facilitato la sicurezza e lo scherzo, fino agli schiaffi di colore e disegno in alcuni quadri della maturità e della vecchiaia, un divertimento – credo – intenzionalmente irriverente nei confronti dei critici ossequiosi e dei compratori acritici, mercanti interessati o ricconi sprovvisti di senso estetico ma avidi di status symbol che, dunque, meritavano di essere presi in giro. Picasso è stato indubbiamente grande artista, ma corrisponde alla tipologia che un famoso psicologo definisce "though minded" (contrapposto a "thin minded"): materialista, pratico, un po’ crudele e sopraffattore; non è un sognatore, né un idealista; è assai poco lirico, altre sono le corde che vibrano nel suo animo. La straordinaria vitalità lo rende vorace e attento – per di più da un punto d’osservazione storicamente e geograficamente privilegiato nel panorama artistico – a ogni stimolo nuovo e fermento utile. Eccezionalmente capace di catturare spunti altrui, li trasforma ed elabora così bene che nessuno si accorge che l’idea era copiata: perché migliora e fa progredire l’originale. Prende da Cezanne (e da un generico postimpressionismo) nel periodo blu e rosa, ma conferisce note assolutamente personali alla sua maniera pittorica. Prende dai Fauves e dall’Espressionismo tedesco, ma in modo così intelligente e sottile e con una semplificazione delle forme così individuale da non darlo a vedere, facendo concorrere queste influenze insieme con quelle, decisive, dell’arte negra nella produzione dal 1906 in poi (Damoiselles d’Avigon: alcuni studi del periodo – voluta negazione del bello e rottura fondamentale con le convenzioni – sono esposti a Milano). La violenza dell’Espressionismo riappare più forte nel colore sfacciato di opere tardive, della maniera matura, ma anche lì con tratti inconfondibili, con un’impronta assoluta.
Il colore probabilmente non lo interessava molto (dipingeva spesso alla luce artificiale) e c’è estrema disuguaglianza stilistica nell’uso del colore nelle varie fasi della sua vita artistica; quasi mai, in ogni modo, il colore è esaltante. Delicato e piacevole è soltanto in alcune opere del cubismo sintetico, e, saltuariamente, in opere successive, sempre accompagnate dalla presenza dell’azzurro. L’azzurro è un segnale: "Oggi, Signori, mi sento poetico". Nel soggiorno italiano prende contatto non solo con l’arte classica ma, si può supporre, con la pittura arcaicizzante dei novecentisti italiani: ne elabora gli spunti con classe suprema.
Anche da Matisse ha preso (nella Donna acrobata e nei quadri di quel genere e quel periodo, poco prima e poco dopo il trenta): è, naturalmente, meno decorativo, ma più forte; adotta un tratto di forma fluida con scopi del tutto diversi. È grandioso dove non c’è colore, nel cubismo analitico, dove, portando all’estremo un modo intuito da Cezanne di avvertire i volumi, procede a due mani con Braque, in un reciproco progressivo stimolo e interscambio (mi viene naturale pensare che l’idea della scomposizione a lamelle sia stata di Braque ma che l’elaborazione intellettuale e pittorica sia passata subito nelle mani di Picasso, le cui costruzioni, meno astratte, sono più funzionali a un esito scultoreo: sculture di metallo). E grandioso, ancora perché non c’è colore, è anche nelle incisioni. La Suite Vollard è una meraviglia, per l’idea della commissione stimolante e della committenza prestigiosa, per il modo di svilupparla, per il risultato e per i titoli illuminanti (una volta tanto i titoli non penalizzano l’opera), per la diversificazione dello stile grafico, per la fantasia. (Non mancano nelle incisioni note stonate, cadute di gusto che non hanno a che vedere con la qualità del disegno, ma sono proprio in alcuni titoli velenosi: soprattutto l’ironia greve su Degas, una prova esibita della grossolana sensibilità umana di Picasso, che prendeva in giro e calpestava tutti, mostri sacri, avversari ma anche amici, come il povero Doganiere Russeau, per il quale organizza una festa-burla approfittando della sua ingenuità e buona fede). Comunque nel 1971, a 90 anni, Picasso è capace di superbe, incredibili ultime stampe e al contempo degli squallidi commenti di dileggio su Degas, ripetuti con variazioni come insistito insulto.
Picasso è prolifico come nessuno, pieno di immaginazione, capace di influenzare l’arte del Novecento più di chiunque; ha suggerito e donato ai pittori suoi contemporanei e successivi infinitamente più di quanto ha assorbito dagli altri. Forse il personaggio più simile nelle arti visive è Tiziano (la longevità, comune a entrambi, indubbiamente li ha avvantaggiati), che si rinnova per tutta la sua vita artistica adottando nella prima fase i modi di Giorgione con tale capacità e comprensione da confondere tutti sulle attribuzioni, procedendo con modi suoi propri nel periodo della maturità, caratterizzato da energia e colore pieno, e catturando i toni del manierismo, specialmente del Tintoretto, nell’ultimo periodo, giallastro, essenziale, modernissimo. Pur concedendogli il beneficio dell’epoca completamente diversa, che non permetteva grandi balzi, Tiziano forse è stato meno prodigioso nell’innovazione, però, sebbene appartenga alla schiera dei "though minded" geniali, dei prepotenti pratici e non sia un fenomeno di sensibilità tenera (sopraffattore e ironico, in combutta con il degno amico Aretino, è inutilmente feroce, per esempio, contro il timido e sprovveduto Lorenzo Lotto), è più poetico, più disposto a commuoversi di Picasso: tocca, in ogni caso, una poesia molto intensa nelle opere giorgionesche e nei quadri della vecchiaia, profondi e intensi (Pietà, Incoronazione di spine). Picasso è poetico quando ritrae i famigliari, come il figlio Paulo vestito da Arlecchino – sublime "non finito" – e Olga nel ritratto classico dei primi anni venti, Dora Maar con gli occhi trasposti nello stile maturo e Maia con la bambola (1937 e 38), oltre che in alcuni già citati dipinti del Cubismo sintetico, specialmente quelli contenenti l’azzurro. Nel periodo blu e rosa la poesia è finta, è di superficie, una pura etichetta. Guernica è programmatico, declamatorio, benché si debba riconoscere che la guerra difficilmente potrebbe essere meglio sintetizzata in una celebrazione negativa.
Qualunque critica, autorevole o modesta che sia, ha solo il valore di espressione di un punto di vista e di invito a ripensare da un’angolatura diversa; non può scavalcare il gusto soggettivo, in gran parte dipendente dall’affinità con l’artista. Commentare un’opera può servire a evidenziare aspetti che erano sfuggiti, non a cambiare sostanzialmente l’impatto emozionale, connesso piuttosto con ragioni inconsce, più remote di ogni considerazione razionale o critica.
In definitiva provo, per Picasso, ogni volta che lo guardo in un numero di opere raggruppate, sentimenti contradditori: devo ammiralo per l’immaginazione turbinante e la freschezza continua, la straordinaria libertà e la disinvoltura totale nell’utilizzo di mezzi e stili di volta in volta giudicati opportuni, ma diverse opere mi sembrano spiacevoli e brutte, soprattutto nel colore; inoltre, quasi nessuna mi tocca il cuore, mi emoziona veramente. La qualità e la forza di Picasso stanno in una sorta di spontaneità intellettuale, di inventiva arbitraria e di fantasia giocosa – conservata fino a novant’anni –, di capacità a restare bambino elaborando tuttavia un materiale culturale di avanguardia con la massima sapienza, o, quanto meno, scaltrezza pittorica; non nella sensibilità poetica. Se si prescinde dalle considerazioni sull’importanza storica, certo favorevoli a Picasso, un qualunque acquerello di Paul Klee è più delicato ed entusiasmante per il mio gusto. Klee, come Van Gogh, come – soprattutto – Gauguin, come, persino, Dubuffet, guadagna enormemente quando si vedono gli originali rispetto alle riproduzioni; Picasso, nelle riproduzioni, perde molto meno. Per alcuni può essere una virtù, la prova di una magia che si mantiene comunque; io credo, invece, sia un segno di casualità nel colore, mascherata dal mestiere e dalla travolgente continua sorpresa del disegno.

 


Francesco Dallera

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