Picasso a Milano 2012

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È fuori di dubbio che Picasso sia stato uno dei più liberi,  fantasiosi pittori della storia. Ma il mostro sacro viene rispettato oltre misura e oggi è proibito trovargli limiti o difetti.  Al massimo si parla male del suo carattere, della sua prepotenza, della sopraffazione che esercitava sulle amanti. Difficilmente, però, qualcuno osa critiche negative al senso intrinseco alla sua arte.

La mostra del Palazzo Reale, con la sua dovizia di quadri importanti (quelli del Museo Nazionale Picasso di Parigi con opere rappresentative di quasi ogni periodo, con prevalenza però di quello maturo, mentre il Cubismo è scarso), è un’altra occasione per rifletterci sopra. Picasso, Cubismo a parte, trae molti spunti dagli innovatori del momento. Con la furberia di non far riconoscere palesemente il trucco, ma anzi scavalcando gli ispiratori, cogliendo l’idea e sviluppandola un passo avanti. Cezanne, “copiato” nel periodo blu e rosa, gli Espressionisti tedeschi, il Blu Reiter, i Fauves, l’arte africana, compresi e incamerati più avanti. Le Damoiselles d’Avignon sono derivate dall’arte negra e dagli Espressionisti germanici. I “quadri classici” sono una conquista del viaggio in Italia, direttamente da Giotto e Masaccio ma anche da Sironi, addirittura da Carrà. Vero è che questo non è in sè un demerito, è stato proprio di  grandi pittori, ma nel caso suo gli spunti ricalcati colpiscono particolarmente per il susseguirsi rapido dei diversi frenetici movimenti del Novecento. Picasso insegue tutti e li sorpassa uno per uno  con maestria e personalità, ne copia le maniere con spregiudicatezza facendo sue le idee che gli  interessano.

Picasso dipingeva spesso a luce artificiale: si vede. Il colore non gli importa molto. Infatti, i suoi dipinti non peggiorano con la riproduzione, a volte migliorano. Il ritratto del figlio in abito di Arlecchino è strepitoso sulle fotografie, un ritratto classico con la civetteria del non finito. Il quadro vero non aggiunge nulla: il fondo strisciato ocra chiaro, poi, non mi piace. Sono belli il ritratto di Dora Maar e l’altro ritratto muliebre – La lecture – ben colorato e modellato, belli nel senso di coerenti e riusciti. Il meglio sono le figure con gli occhi spostati, il naso di profilo  e gli occhi di fronte, fortemente caratteristici del suo genio, ma non inclini al versante del piacevole. Si tratta di una bellezza- bruttezza sui generis, sempre congiunta a freddezza, tranne in pochi esempi di ritratti di persone care. Picasso rompe raramente la freddezza che lo accompagna di solito. Era stato sentimentale solo nel periodo blu e rosa dove però  si avverte un  piagnucolio finto, falso, per esternare prove di virtuosismo in stile  cezanniano. Si era anche lasciato andare a un estetismo lirico (che, se si vuole, rappresenta  una forma di sentimentalismo), molto saldo e non edulcorato, nel momento  del cubismo sintetico (influenzato da Braque?). Pittore intellettuale più che poetico, a me suggerisce  confronti, muove  il pensiero, il sorriso,  poco e raramente l’animo, poco il sentimento. È certamente freddo, come era nella vita, cinico e privo di scrupoli. Nella sua pittura non mancano aspetti grossolani, non è un raffinato. La finezza di Paul Klee mi appaga diversamente. Il sentimento dei volti di Modigliani è più toccante. Lo stesso Braque, stretto compagno di esperienze, è meno prometeico ma più  sottile. La storia di Picasso è quella di un personaggio all’avanguardia della sua epoca, che ha lui stesso segnato il percorso dell’arte, guidandone le traccia davanti agli altri per quasi tutto il secolo, dotato soprattutto di enorme inventiva nel disegno. Però sempre traendo dalle idee di altri, con l’eccezione del periodo maturo – quello degli occhi fuori asse e dei volti deformati – tutto suo, derivato dal cubismo ma nel quale, pur con indubbia originalità, ha lavorato molto sul brutto, elaborandolo come nessuno. Il brutto nei volti, il brutto nell’anatomia, nei rapporti dimensionali, il brutto nella rappresentazione dei genitali femminili. Il massimo del non attraente. Aveva ragione di dire “La pittura non è per arredare  gli appartamenti, è uno strumento di  guerra”.  Il gradevole non lo attrae, non gli interessa. Trascura la finezza nel colore. Gli riesce bene l’azzurro, fino alla gamma del blu Cina e blu Parigi (non il blu spento del periodo blu che forse risente – ricordo e condivido un’osservazione di Arbasino – di un’alterazione del pigmento a olio negli anni). Nelle opere legate al Cubismo sintetico sembra cedere all’azzurro e al gradevole. Negli altri colori è leggermente volgare. Con qualche eccezione, come la natura morta della mostra in cui ostenta una perfezione sia nel disegno che nel tonalismo  tale da far pensare che quasi tutto il resto sia una voluta presa in giro. Una natura morta pura più di uno Chardin, con la delicatezza di Morandi senza il ricercato tremolio manieristico, l’assolutezza del disegno di semplicità estrema, una composizione accademica senza difetti che dice: guardate come so dipingere se voglio.

In  molta sua opera vedo:  idee altrui furbescamente sviluppate con grande fantasia, di vena fanciullesca. Prontezza e infinita capacità nel disegno. Gusto non sempre di prima qualità, spesso discutibile. Vera originalità  nelle opere mature dove elabora  le proprie esperienze con assoluta personalità, quasi sempre però guidato da un piacere per il brutto, da scelte a favore del brutto. Infine, in molta produzione, indifferenza canzonatoria,  senso di onnipotenza di artista, beffarda ostentazione di superiorità su critici, mercanti, collezionisti, pubblico.

                                                                                                                                                                                                                                                                                               Francesco Dallera,  novembre 2012

 

Rileggo, su questo stesso sito, l’articolo che nel 2001 avevo dedicato alla precedente ampia mostra di Picasso, anch’essa al Palazzo Reale. Le  cose osservate  e dette sono identiche. Differenti opere, quasi  medesime parole.

Dimostro almeno una certa coerenza. Riguardando il catalogo, vedo molto rappresentata nella mostra del 2001 la fase cubista, storicamente la più importante.  L’immagine del pittore ne usciva più completa, meglio distribuita (e più favorevole).

 


Francesco Dallera

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