Piero di Cosimo, altri artisti e animali pieni di poesia

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La pittura antica e moderna ha rappresentato quantità di animali, con intenzioni diverse: riprodurre la natura, tradurre immagini della fantasia o del mito, o utilizzarli come simboli. In ordine di valore, si comincia dall’ermellino di Leonardo, le cui meravigliose linee curve si combinano in senso opposto con quelle della mano che delicatamente lo trattiene. I cavalli fanno parte di ogni scena di battaglia; numerosi sono i cani e i gatti nelle raffigurazioni di interni borghesi o popolari o nobili; buoi e vacche non si contano nei dipinti olandesi e in quelli dei Bassano, dove abbondano anche le pecore, come nei quadri di paesaggio inglesi. L’arte folk britannica e americana fa veri e propri ritratti di campioni degli allevamenti e non disdegna polli e suini nel repertorio. Ci sono elefanti (di Annibale) in rappresentazioni storiche, e dromedari nei quadri degli orientalisti, capri dalle grandi corna dal Rinascimento in poi e animali silvestri nelle pitture ispirate alla mitologia. Stubbs dipinge i primi purosangue inglesi, coniugando assoluta padronanza dell’anatomia equina a grande senso della grazia e della bellezza dei soggetti.

Il gatto per me più affascinante è quello, minuscolo, quasi trasparente, sul parapetto del S. Gerolamo (Londra) di Antonello da Messina. Un gatto magico, come di vetro, di cristallo. Altro gatto importante – in fuga, simbolico del demonio – nell’ Annunciazione di Recanati, del Lotto. Il cagnolino di Van Eyck nei Coniugi Arnolfini (Londra) e quello di Velasquez nel Principe Filippo Prospero (Vienna) suggeriscono considerazioni a Gombrich, che nota "con quale diversità di mezzi i grandi artisti possano ottenere i loro effetti. Van Eyck si preoccupò di copiare ogni ricciolo dell’animale; Velasquez, duecento anni più tardi, tentò solo di cogliere la sua espressione caratteristica […]. Benché non dipingesse un solo pelo, il suo cagnolino è più riccioluto e naturale di quello di Van Eyck".

La novità e il timbro esotico hanno attratto alcuni artisti. Nelle tele brillanti e mondane del Veronese, più dei cani nella Cena in casa di Levi (Venezia, Accademia) e nelle Nozze di Cana, è degna di nota la scimmietta di profilo ne La famiglia di Dario (Londra, National Gallery).

Particolare sensibilità nel ritrarre animali dimostra Vittore Carpaccio: nelle Dame veneziane (1490 circa, Venezia, Museo Correr), che è la parte bassa di uno sportello la cui parte superiore era Caccia in laguna, ora a Malibu, due donne attendono, in abiti, ricami, acconciature, arredi eleganti, fra uccelli esotici e nostrani e cani viziati, piccoli e grandi, anche loro annoiati come le dame (uno tiene sotto la zampa una lettera che richiama quelle dipinte in tromp l’oil sul verso della tavola di Malibu, con significati perduti insieme alla complessa simbologia del tempo), che attendono il ritorno dei mariti cacciatori, rappresentati sulle barche al di là della balaustra, con gli archi in pugno, mentre anitre disposte a freccia solcano il cielo. Questo dipinto -- splendida immagine della buona società dell’epoca, nell’incanto della laguna – sembra proporsi, tra l’altro, come testo-esca e provocazione per una posterità di femministe.

Sempre a Venezia, ma nel Settecento, il rinoceronte, presentato durante un giro per l’Europa come attrazione, per i tempi, rarissima, fu ritratto in tre quadri da Longhi (uno è a Cà Rezzonico, un altro, quasi identico, alla National di Londra, un terzo, girato in senso opposto, a Vicenza, proprietà di una banca): piccolo rinoceronte nero con il labbro superiore arrotondato, che uno steccato divide prudentemente da gentiluomini e dame in costumi veneziani. Però il rinoceronte più bello è certamente dell’incisione di Dürer (ripreso identico e stemperato nel colore da Jacopo Ligozzi), tutto pieno, sulla corazza a squame e grosse falde tipiche della specie asiatica, di bernoccoli, peli, escrescenze, creste, corni e incrostazioni accurate e preziose, un gioiello grafico cesellato, una raffinatezza in bianco e nero da grande disegnatore nordico; e proprio frutto di fantasia, perché Dürer non vide il rinoceronte che, portato in Europa da marinai portoghesi e inviato in dono al Papa dal re del Portogallo insieme a un elefante, fu vittima di un naufragio durante il viaggio. Mentre l’elefante (grazie all’ imbarcazione separata), arrivò a Roma ed ebbe Raffaello come ritrattista dal vivo, Dürer dovette accontentarsi, come modello, della stampa di un portoghese (senza che la qualità artistica ne abbia sofferto, come si vede). Di Dürer sono anche degni di nota il leprotto ad acquerello del 1502 (Vienna, Albertina), le tre lepri della Sacra Famiglia, xilografia del 1498, e, sempre nell’ambito delle incisioni, i leoni tanto imitati e il porco mostruoso.

Altri pittori sono da includere senz’altro nell’esiguo gruppo dei poeti degli animali. Ho in mente i corvi, i cani, le mucche di Peter Brueghel il Vecchio; il cerbiatto e il cervo di Dosso Dossi nella Circe (National Gallery, Washington), lo scoiattolo che, con lo storno, fa compagnia alla giovane donna di Holbein alla National di Londra; gli animali di Cima da Conegliano nel tondo Endimione, alla Pinacoteca di Parma. Nel piccolo tondo di Cima, il pastore Endimione, condannato a dormire senza invecchiare sul monte Latmos -- in una delle strambe punizioni dell’Olimpo – è visitato da Selene, la Luna, proprio in forma di falce argentea, a ridosso dei rami di un albero in primo piano. Intorno sono un cerbiatto e un cane addormentati, due piccoli trampolieri e due grossi conigli. Le proporzioni sono falsate – come sacrificio richiesto dall’armonia compositiva di un dipinto così piccolo -- ma tutti gli animali sono veramente belli.

I cani affaticati e curvi dopo la caccia di Gennaio e le mucche nei toni ocra di Novembre (Kunsthistorische Museum, Vienna) sono creazioni ammirevoli di Brueghel, all’altezza di tutta la sua pittura, che è sensibilità unica al tempo atmosferico e lirismo altissimo, combinati con profondità filosofica espressa in pittura. Gli animali sono tessere dello straordinario mosaico di conoscenza dell’uomo e del mondo prodigato nella sua arte.

Grande pittore di animali è Piero di Cosimo, personalità atipica, forse a tutt’oggi sottovalutata. Vissuto a Firenze nel momento aureo, a cavallo di Quattro e Cinquecento, era fuori dalle committenze ufficiali del tempo, estraneo alla cerchia medicea, certamente a causa di qualche tratto – potremmo dire – poco diplomatico, da misantropo che non curava le apparenze, rifiutava i bei modi, era insofferente delle convenzioni e anzi aveva abitudini stravaganti. Secondo Vasari, che peraltro gli dedica diverse pagine mostrando stima, "Teneva una vita da uomo più tosto bestiale che umano: non voleva che le stanze si spazzassino, voleva mangiare all’ora che la fame veniva, e non voleva che si zappasse o potasse i frutti dell’orto…". Gli svantaggi sociali e di carriera di un simile comportamento, sono dichiarati esplicitamente da Vasari: "E se Piero non fusse stato tanto astratto et avesse tenuto più conto di sé nella vita che egli non fece, avrebbe fatto conoscere il grande ingegno che egli aveva, di maniera che sarebbe stato adorato, dove egli per la bestialità sua fu più tosto tenuto pazzo…". Alcuni degli aneddoti riferiti sono divertenti e Vasari avverte e trasmette una straripante, contagiosa simpatia per il personaggio: "Si riduceva a mangiar continuamente ovva sode che, per risparmiare il fuoco, le coceva quando faceva bollir la colla; e non sei, o otto per volta, ma una cinquantina, e tenendole in una sporta, le consumava a poco a poco." Vasari sembra mosso al buon umore da queste caratteristiche di Piero, nevrosi non represse e non soffocate dal conformismo ma abbandonate a un comportamento del tutto spontaneo; quasi sembra invidiarle leggermente, con un sentimento che qualche volta proviamo verso chi si conduce in maniera assolutamente libera anche se infantile: "Nella quale vita così strattamente godeva, che l’altre appetto alla sua gli parevano servitù. Aveva a noia il pianger dei putti, il tossir de gli uomini, il suono delle campane, il cantar de’ frati; e quando diluviava il cielo d’acqua, aveva piacere di veder rovinarla a piombo da’ tetti e stritolarsi per terra. Aveva paura grandissima de le saette, e quando e’ tonava straordinariamente, si inviluppava nel mantello e, serrato le finestre e l’uscio della camera, si recava in un cantone finché passasse la furia." Una sua opera incantevole è Morte di Procri (National Gallery, Londra), dove un giovane satiro, composto ma disperato, veglia, in una nitida e struggente luce crepuscolare, una ninfa bellissima distesa nell’abbandono della morte. Accanto, un grosso cane seduto, leggermente chino: Lelapo – si deve supporre – il cane da caccia che non mancava mai la preda, regalato a Procri da Minosse per sedurla (seduzione riuscita). Il cane è attento, partecipe, ma in disparte, quasi rispettando il diritto del satiro a stare più vicino. È senza dubbio uno degli animali più poetici mai dipinti: esprime un senso di tristezza penetrante, di dignitosa partecipazione e si inserisce nell’incanto sospeso creato dal paesaggio, dalla figura singolare del satiro e dalla giovane che sembra addormentata, ma si intuisce morta per il contesto e per le piccole gocce di sangue sul collo. (I miti greci hanno spesso versioni diverse; in nessuna ho trovato menzione del satiro. Nella versione più conosciuta di questa storia, Procri, moglie del re di Atene Cefalo, riconciliatasi con lui dopo averlo tradito con Minosse, proprio da Cefalo è uccisa per sbaglio durante una caccia, in un tipico intreccio di amori e gelosie che coinvolgono dei, semidei, eroi.) Sulla parete di fronte della medesima sala, alla National, c’è una tavola di identico formato (orizzontale), che, allo stesso modo, rappresenta una scena di vita primordiale intessuta di magia: una Lotta fra Lapiti e Centauri, che non sono animali, ma si possono considerare, almeno per Piero, appartenenti allo stesso universo di fantasia. Ilamone, centauro colpito a morte, bacia la sua amante Cillaro, dal corpo cavallino grigio chiaro, semisdraiata. La sposa, protagonista del banchetto sospeso dall’irruzione dei Centauri, afferrata per i capelli da un aggressore, ha perso quasi tutti gli abiti, ridotti a un costume osé che potrebbe essere disegnato da uno stilista provocatorio contemporaneo. Un po’ kitch – obbietterebbe qualcuno – ma onorato dai secoli – penso io -- e da una trasgressività spontanea e sincera. Lontano dalle ipocrisie pretestuose di certi dipinti antichi, l’erotismo di Piero di Cosimo è trasparente e voluto, di una franchezza disarmante: l’abbigliamento della sposa è un cache-sex a cintura e a simmetriche strisce di tessuto che mettono in mostra un armonioso seno scoperto; come scoperte sono le cosce da popolana un po’ mascolina, che ricordano il realismo aspro delle pitture fiamminghe. Ė un’arte lontana dalle accademie e dal conformismo: ingenua, candida, spontanea, cruda, sensibile; e poetica.

 


Francesco Dallera

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