La risalita di liquido dallo stomaco all’esofago (reflusso gastroesofageo: nell’uso medico, la variante arcaica del vocabolo, grazie alla consueta inclinazione per la solennità retorica, ha avuto la prevalenza su quella moderna, riflusso) avviene più volte nella giornata in quasi tutte le persone, ma acquista carattere di patologia se è protratta e danneggia la fragile superficie esofagea. Quando il reflusso è lesivo, di solito è anche sintomatico e la lesività è causata dall’acido cloridrico, dalla pepsina e, se presente, dalla bile. Il fulcro del fenomeno è un’anomalia del tono della muscolatura esofagea (sfintere esofageo inferiore), a causa della quale non c’è tenuta valvolare che si opponga al rientro di materiale dal basso verso l’alto, e la muscolatura, d’altro canto, non si rilascia quando invece dovrebbe per consentire l’eliminazione del liquido rifluito. Si tratta di un disturbo del tono e del movimento, dunque inizialmente solo funzionale, senza cambiamenti della struttura visibile o microscopica dell’epitelio dell’esofago, che però nel tempo si complica con modificazioni organiche, inizialmente infiammazione, poi alterazioni più gravi: erosioni, restringimento e, istologicamente, metaplasia, displasia, fino alla neoplasia nei casi più aggressivi e sfortunati, sul cui decorso peraltro è possibile intervenire opportunamente con cure mediche, se la progressione è individuata e conosciuta.
Il sintomo più frequente è la pirosi (bruciore retrosternale-epigastrico), sicuramente attribuibile a questa causa nei casi tipici, quando il paziente è preciso nella descrizione e il medico capace di estrarre la notizia. Il secondo in ordine di frequenza è il rigurgito (risalita di materiale in bocca). Più raramente sono presenti disfagia, odinofagia (difficoltà o dolore alla deglutizione), sanguinamento, o il reflusso può arrecare danni alla faringe o alle corde vocali o all’albero respiratorio (mal di gola inspiegato, raucedine, tosse, asma). Questi ultimi riscontri sono emersi negli anni recenti e rappresentano una vera sorpresa, un ventaglio di interpretazioni non immaginabili qualche decennio fa: l’endoscopia e altri metodi di diagnosi hanno aperto nuove prospettive di comprensione.
Sebbene non si conoscano tutti gli anelli del meccanismo che conduce alla malattia da reflusso, sono note alcune delle cause predisponesti e scatenanti. L’ernia iatale, cui si è data in passato un’importanza enorme, è stata ridimensionata nel suo ruolo di causa del reflusso: lo favorisce, infatti, quando è cospicua, ma è presente in soggetti che non hanno nessun disturbo e la sua relazione con i sintomi deve essere assestata con prudenza, evitando le attribuzioni di comodo. L’ernia (piccola parte di stomaco che scivola sopra il diaframma, come a dire una dislocazione fuori sede della cupola dello stomaco), se è piccola, è comune con il progredire dell’età e certo il suo peso nell’origine dei disturbi è stato, per anni, esagerato, per mancanza di spiegazioni più convincenti e per la fortissima tendenza a valorizzare cause organiche in una certa fase storica della nostra medicina. Il reflusso del resto è spesso presente senza ernia: dunque, in sostanza, è necessario chiedersi e documentare se c’è reflusso, non tanto se c’è ernia. La smania di trovare una causa e un rimedio a tutti i costi ha motivato per anni interventi chirurgici di correzione quasi sempre inutili. Ora, sia pure con logiche divergenze di opinioni fra diverse scuole e diversi medici, l’operazione (possibile anche per via endoscopica) per ridurre l’ernia iatale ("iato" è l’apertura del muscolo diaframmatico) è riservata a pochi casi ben selezionati dopo accurate indagini preliminari.
L’obesità, la gravidanza (per azione meccanica e per influssi ormonali sulla muscolatura esofagea), un riempimento eccessivo dello stomaco, sono tutte cause facilitanti il reflusso e suggeriscono l’ovvio consiglio-antidoto volta per volta: dimagrire, eliminare cinture strette e busti, evitare pasti abbondanti. Utilissimo è alzare la testa del letto 20-25 cm, per favorire il deflusso spontaneo del liquido rifluito di notte, così come chi è sofferente per questo problema non dovrebbe coricarsi presto dopo cena, dando tempo al fisiologico svuotamento gastrico, che si completa in alcune ore. Più lento è il transito gastrico con i cibi grassi. Insieme ai grassi sono sconsigliati, per un effetto diretto sull’esofago, caffè e tè, cioccolato (contengono xantine), tabacco, aglio e cipolla, menta, cibi piccanti o acidi, alcolici specialmente fuori pasto, agrumi e altri alimenti che sulla base dell’esperienza personale siano giudicati negativamente influenti (è abbastanza personale la risposta al peperone, al pomodoro, a certa frutta). Il valore di una dieta rigida è stato per fortuna molto attenuato dall’efficacia straordinaria degli ultimi farmaci antisecretori, che permettono qualche trasgressione senza penalità, ma in questa patologia, più che in altre, l’influenza dei cibi sulla sintomatologia, al di fuori della protezione della cura, è netta e puntuale. Anche molti farmaci di uso comune possono peggiorare il riflusso: soprattutto teofillinici (simili alla caffeina, impiegati nell’asma), calcio-antagonisti (pressione arteriosa e cuore), anticolinergici (i vecchi antispastici tanto utilizzati proprio per malesseri digestivi, che in questo particolare settore di patologia, però, sono ora abbandonati perché candidati a fare male anziché bene). Occorre al medico, come si vede, una buona conoscenza della farmacologia e un giudizio equilibrato per dare ordine a questa potenziale confusione, valutando la necessità dei diversi farmaci e l’effetto risultante per attribuire le priorità e armonizzare le scelte con la gravità e la prevalenza delle patologie. Per fare un esempio che pone conflitti decisionali, hanno spiccata attività anticolinergica – quindi aggraverebbero teoricamente il reflusso – gli antidepressivi triciclici, il cui effetto psicotropo può però, in pazienti che, depressi, ne hanno bisogno, sopravanzare le attese sgradevoli sulla dinamica esofagea, così che utilizzarli anche in presenza di malattia da reflusso, con attento monitoraggio della risposta, associando o meno farmaci protettivi, può risultare preferibile o necessario.
Quando la storia è chiara e non vi sono dubbi sull’interpretazione dei sintomi, è giustificato un tentativo di cura anche senza conferme da indagini strumentali. Se non tutto convince, i disturbi sono gravi o non scompaiono con le terapie consuete, o recidivano appena si sospende la cura, occorre un esame endoscopico che dimostri il grado di esofagite (infiammazione che consegue a reflusso prolungato), se sia presente ernia e in quale misura – pur nei limiti in cui l’ernia va considerata – o escluda altre malattie. In casi selezionati, altri esami più specifici, come la misurazione dell’acidità (PHmetria) e delle pressioni esofagee (manometria), con piccole sonde collocate nell’interno dell’esofago, rispondono alle domande insolute e forniscono indicazioni sulla cura nelle situazioni difficili. In alcuni casi, la diagnosi deve essere confermata con il test di Bernstein – infusione di acido cloridrico in esofago, che produce i sintomi identificabili dal paziente – quando siano da dirimere difficoltà di distinzione con dolori scheletrico-costali o muscolari o, peggio, coronarici. Un esame cui si ricorre raramente, in situazioni particolari, è la scintigrafia con tecnezio colloidale marcato, che misura quantitativamente il reflusso. Il percorso diagnostico deve rispondere a tre domande, e le indagini devono succedersi in subordine a questa necessità: c’è il reflusso? È il reflusso a provocare i sintomi? Quali danni ha provocato il reflusso sull’esofago? L’endoscopia (visione dell’interno con fibre ottiche o con una telecamera), esame da molti anni del tutto routinario, può rispondere a quest’ultima domanda, verificare se vi sono infiammazione o altre conseguenze; non è indicativa del reflusso in sé, per il troppo breve tempo di osservazione e per le condizioni psicologiche del paziente, che, durante l’esame non sono quelle della vita normale.
Gli antiacidi, sali di alluminio o magnesio, sono sempre stati un caposaldo della terapia, ma hanno azione breve e, utili occasionalmente, sono ora superati, per la cura della malattia da reflusso stabilizzata, da farmaci con azione protratta, antagonisti dei recettori H2, attraverso i quali passa la secrezione di acido cloridrico e, soprattutto, inibitori della pompa chimica che produce acido. Questi ultimi, a dose adatta, sono in grado di bloccare completamente la formazione dell’acido nello stomaco e dunque di rendere inoffensivo il reflusso. Alcune persone hanno necessità dei farmaci per tempi lunghi, spesso però un ciclo di cura di sei settimane risolve le conseguenze infiammatorie (esofagite) e consente periodi prolungati di benessere. I farmaci inibitori della produzione acida, molto selettivi, di formulazione molecolare precisamente costruita sulla necessità biochimica, concettualmente modernissimi, bloccano un meccanismo – quello della secrezione di acido – residuo vestigiale dei millenari periodi preistorici in cui i nostri antenati, nutrendosi di carni crude e non condite, avevano dall’acido gastrico un utile aiuto predigestivo; una secrezione di acido, a quanto pare, sproporzionata alle esigenze digestive attuali e spesso eccessiva, più dannosa che utile. Accanto ai farmaci soppressori dell’acido – rimedi straordinari quasi sempre sufficienti anche per forme gravi di malattia da reflusso – sono nel nostro attuale armamentario i cosiddetti procinetici, che modificano il transito esofago-gastrico regolandone la motilità. Alcuni di questi hanno, insieme a un’azione periferica sulla muscolatura di esofago e stomaco, un effetto su mediatori chimici che, nel sistema nervoso centrale, controllano l’umore e la vita di relazione e si può supporre che l’interferenza sulla reazione ansiosa o depressiva entri in gioco nel modificare il reflusso.
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