Il Rinascimento a Venezia e nella pittura del Nord. | |
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Le suggestioni nel vedere l’uno accanto all’altro opere simili di pittori considerati lontani come ambito, formazione, ispirazione e che dimostrano, invece, sorprendenti affinità e messaggi confluenti, sono notevoli; ma, a prescindere dalla esplicita intenzione della mostra, la visita è giustificata comunque dal valore e dalla quantità di capolavori raccolti insieme per l’occasione da musei o collezioni in parte lontani e difficili da raggiungere. Un gioiello clamoroso è il ricongiungimento di due metà dello stipo del Carpaccio con la Caccia in laguna in alto e l’Attesa delle dame in basso, la prima a Malibù, la seconda al museo Correr. Sebbene l’identificazione dell’origine comune delle due tavole risalga agli anni cinquanta, vederle insieme per la prima volta dopo secoli, perfettamente combacianti, con il giglio che fuoriesce dal vaso sottostante e si protrae nella tavola superiore, è una bella soddisfazione per un appassionato. La tavola di Malibù ha, sul retro, un trompe l’oil con lettere che richiamano – certo con qualche significato simbolico – una lettera sotto la zampa del cane delle dame. Questa sottile tavola dipinta, applicata sul verso, manca dietro al quadro Correr con le Dame, e che si sia perduta è indicato, oltre che da un’ovvia attesa di simmetria, dallo scavo innaturale sul retro, occupato da listelli di legno di rinforzo, moderni. La composizione riunificata acquista, com’è ovvio, l’equilibrio e il respiro che le parti separate non avevano più: scompaiono il senso di oppressione spaziale dalla tavola con le dame e l’impressione di vacuità da quella con i cacciatori. Carpaccio, nella magnifica rappresentazione dell’atmosfera lagunare, ci offre l’immagine di una certa società del tempo; si è chiamata in causa una delle tante simbologie rinascimentali, in questo caso sulla fedeltà coniugale: a me piace vedere l’umore annoiato delle donne (che non hanno altro scopo che attendere i mariti a caccia di anatre) come un testo-esca propositivo e provocatorio per una posterità di femministe. Carpaccio ha fascino, è pittore grande. Ancora più grande è Mantegna, di cui nella mostra si può ammirare, fra l’altro, l’Adorazione (pure del Getty Museum, Malibù), che ha un’incredibile trasparenza della materia pittorica, colore magico e meravigliose espressioni dei volti. Opere straordinarie anche la Deposizione di Van Der Weyden, (non quella del Prado, ma quella del Mauritshuis dell’Aja, che ne è quasi una fase successiva, un fotogramma scattato dopo, attraverso mesi di lavoro di pennello), e la Madonna col coniglio di Tiziano del Louvre, piccolo quadro della prima maturità con il tramonto forse più bello di Tiziano. Da segnalare poi due paesaggi minuscoli di Patinir (scritto a volte Patinier, o Patenier), fiammingo visionario, personalità singolare, pioniere del paesaggio come genere indipendente, artista che non rassomiglia a nessuno, celebrato ai suoi tempi (dipingeva spesso sfondi paesaggistici per altri pittori affermati), raro oggi (di lui sono rimaste pochissime opere di attribuzione sicura, nessuna in Italia): paesaggi fantasiosi, verde-azzurro, visti dall’alto, con una piccola scena ridotta a pretesto, come in tutti i suoi quadri. Quali che siano le preferenze personali, si può essere contenti: sono in mostra un disegno a sanguigna di Giorgione, un paesaggio di Brueghel il Vecchio che ha lo stesso charme dei dipinti, una copia di Dürer da un’incisione di Mantegna (Sileno ubriaco), fedelissima, che, osservata fianco a fianco con l’originale, prova come anche artisti importanti usassero fare copie identiche di altri grandi, con l’umiltà di cercarvi qualcosa da imparare ripercorrendone le linee; di Dürer sono esposti anche bellissimi acquerelli, di solito non visibili nei musei, chiusi in cartelle e protetti dalla luce. Giovanni Bellini è rappresentato da opere notevoli, di varie fasi della sua lunga vita artistica, da quelle quattrocentesche profilate in modo nitido e netto, a quelle dopo il contatto con Giorgione, dal contorno sfumato. La piccola, celebre Crocifissione di Anversa, il Ritratto virile della Sabauda, così volitivo e – a me sembra – così siciliano nell’espressione, e il San Gerolamo di Londra, con il gatto sul piedistallo della libreria (che dovrebbe simboleggiare il Diavolo, ma sta bene fra i libri anche così, senza bisogno di significati nascosti) e le splendide arcate in prospettiva – in contrasto con l’impatto frontale del mobile a scomparti – rappresentano in modo importante Antonello da Messina, che, secondo il Vasari e nell’interpretazione tradizionale, suffragata dai caratteri della sua pittura, sarebbe stato il maggior tramite fra Veneziani e Fiamminghi, per gli scambi stilistici e per la diffusione della tecnica a olio. Altrettanto significative, proprio per la comprensione delle mutue influenze che la mostra si prefigge di favorire, le opere di Dürer a cavallo dei due viaggi a Venezia (1494, 1505). E numerosi sono i dipinti di Lotto, le cui parentele con il Nord erano forti pur in uno sviluppo appartato e personalissimo, con una nota di ingenuità, di scontrosità e isolamento, ma anche di vitalità e spontaneità e nel quale coesistono, prevalendo l’una o l’altro secondo i momenti – a un livello di qualità diseguale ma a volte altissimo – sensibilità internazionale e sfumature naïves.
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Francesco Dallera |