La mostra di Schwitters al PAC di Milano (20 ottobre 2001 - 27 gennaio 2002), sovrapposta a quella di Picasso, passa quasi inosservata. Le riviste di attualità, moda, arredamento che hanno una rubrica d’arte gestita dai critici "divulgativi" e persino i giornali semi-specialistici ne hanno parlato poco. Invece Schwitters è uno degli artisti visivi più importanti del Novecento.
Per un appassionato non addetto ai lavori come me, la mostra è stata illuminante, permettendomi di capire di colpo rapporti e derivazioni che non mi spiegavo. Schwitters è un anello importantissimo nell’arte contemporanea, di cui quasi si tace. Ne era consapevole: in dichiarazioni, riportate sui cartelloni esplicativi della mostra, affermava in toni fieri, se non presuntuosi, di aver imballato e collocato in diversi luoghi le sue opere, così che potessero almeno in parte sfuggire a calamità o ladri o distruttori, per i posteri che certo avrebbero apprezzato la sua arte misconosciuta in vita. "Non si potrà dire: quel povero diavolo non lo sapeva nemmeno[quanto era importante]" sono all'incirca le sue parole.
Quasi tutte le opere principali sono a Hannover, parte in una fondazione a suo nome, parte in un museo e parte in una banca. Anche per questo è relativamente poco conosciuto al pubblico, oltre che per il fatto intrecciato e dipendente che, non essendo quasi disponibili opere circolanti, il mercato e le aste quasi lo ignorano, stimolando poco la pubblicistica commerciale, fondamentale oggi per la notorietà di un artista. La riproduzione fa perdere molto ai suoi quadri, snaturandone rilievo e volume, oltre che il colore, sempre penalizzato nelle riproduzioni di qualunque artista. Fra i grandi, l’autore che perde meno nelle riproduzioni è Picasso, perché il suo colore dipende poco da finezze, addirittura è grossolano nei dipinti "maturi"(sono persuaso che il colore non lo interessasse molto e arrivo a pensare che nelle opere della maturità, le più grevi anche se geniali e inconfondibili, la riproduzione qualche volta avvantaggi Picasso); quelli che perdono di più, quelli per i quali la differenza di fascino fra dipinto reale e dipinto riprodotto è abissale, sono Van Gogh e Gauguin.
Schwitters, nato nel 1887, è attivo nei primi decenni del Novecento. Porta all’estremo la tecnica del collage, con assemblaggio, applicazioni, inchiodatura di materiali differenti, sempre combinati con effetti visuali belli e armonici ma non leziosi. La parola chiave, l’emblema nominale dei suoi lavori è "Merz", derivato da "kommerzbank": un’estrapolazione casuale dell’autore da una lettera commerciale ritagliata per un collage. Tutti i movimenti e le correnti artistiche hanno un nome e anche l’innovazione individuale di Schwitters ha diritto di averne uno; però insistere su questa parola per identificarne il travaglio poetico e la ricerca espressiva sminuisce piuttosto che conferire importanza al grande pittore-scultore. Dare un nome originale ad ogni costo a un periodo o un modo di fare arte è un’esigenza di identificazione e una comodità conversativa, ma spesso svela ingenuità culturali, ricercatezze puerili che non vorremmo ammettere negli artisti che ammiriamo, specie quando sono stati loro ad assegnarsi l’etichetta.
I titoli delle sue opere, invece, sono di classe, diversamente dalla maggioranza dei titoli nell’arte moderna o contemporanea, che si fanno notare per retorica, inutilità, infantilismo, velleità culturale senza substrato, e mettono a disagio per l’ingenuità (se i critici e i mercanti sostenitori, veri curatori d’immagine degli artisti, non fossero, spesso, anche loro ignoranti e privi di gusto, come potrebbero consentire titoli assurdi, stucchevoli o del tutto superflui alla comprensione del quadro, a cominciare dagli innumerevoli e ridicoli "Omaggio a…"?). Schwitters in questo senso emerge, con titoli spesso garbatamente ironici e auto-ironici, in grado di aiutare la comprensione, mai banali.
Non voglio scendere nell’analisi delle connessioni e delle influenze artistiche. Certo, nella prima fase, fino al 1920, si vede l’influsso del cubismo e, più ancora, dell’espressionismo tedesco, cui la sua opera rimane anche in seguito collegata per affinità e forza espressiva libera. Rispetto a tutti gli espressionisti tedeschi consacrati (il gruppo di Hekel, Kirchner, Marc, Schmid Rottluff), Schwitters ha, per il mio gusto, un maggior senso del bello, un’estetica più fine, un genio superiore con una spinta innovativa in direzioni più complesse e variate, anche se resto ammirato e rispettoso del coraggio e dell’energia degli espressionisti storici (fra i quali non comprendo Schiele e Klee che fanno a sé e sono in assoluto tra i pittori più grandi del secolo sollevandosi sopra ogni apparentamento e corrente, anche se sono spesso inclusi fra gli espressionisti per presunte affinità di stile o per contatti geografici e ambientali).
Più avanti nel suo percorso è avvicinabile al Dada, movimento che esalta dissacrazione e casualità. Ma il nocciolo estetico di Schwitters è molto più forte che negli altri Dadaisti, più inserito in una tradizione emotiva, sensoriale, poetica. Il paragone con Duchamp è puramente concettuale: i due sono completamente diversi sul piano della sensibilità. Duchamp è cerebrale, freddo. Schwitters è un artista nel senso classico, i suoi materiali non sono accostati soltanto per un processo intellettuale, mirano ad un sapore emozionale dell’oggetto costruito. Un’opera di Schwitters appesa in salotto mi darebbe piacere, la guarderei spesso. Non potrei dire lo stesso di una scultura di Duchamp, o delle eleganti stravaganze goliardiche di Max Ernst, o dei quadri sarcastici, per quanto perfettamente eseguiti, di Grosz, illustratore mordace, non poeta.
In senso centrifugo, il suo influsso è stato certo enorme e molto sottovalutato. Vederlo una volta, qualche decennio fa, obbligava a subirne l’influenza, deve aver funzionato come una calamita, era un contagio consapevole o inconsapevole ma inesorabile. Degli artisti italiani, si capisce bene che Burri e Baj sono sue derivazioni dirette: più grande, profondo, solenne, significativo il primo; festoso, leggero, superficiale il secondo. Ma è difficile non vedere dipendenze più sfumate, indirette e involontarie, in moltissimi altri autori, importanti o rimasti nell'ombra.
Sempre incuriosito da questo artista, di cui avevo visto quasi nulla dal vero e pochissimo anche di riprodotto su libri o riviste, finalmente sono stato appagato. L’impressione è stata più forte del previsto, molto più forte, con il senso di una scoperta. A Milano erano state dedicate a lui solo una piccola mostra nel 1996 e un’altra quaranta anni fa. Nei musei non si vede quasi nulla, a meno di non programmare un viaggio a Hannover.
Di questa mostra, ho trovato sgradevoli le intelaiature esterne protettive - meta-cornici sopra le cornici dell’autore - di legno nuovo e vetro o plexiglas, forse ereditate dall’allestimento della fondazione che ha prestato le opere. Sono stonate e guastano la bellezza dei quadri e delle cornici interne originali.
Considerato dal Nazismo artista "degenerato", Schwitters si trasferisce in Norvegia prima, in Inghilterra poi (nel 1940). Muore nel 1948 ad Ambleside. Il giorno prima di morire, riceve la cittadinanza inglese.