Sulla Musica Attenzione: Lettura Lunga e Noiosa |
Tra la musica detta “classica” e la musica detta “leggera”, cioè tra la musica delle orchestre sinfoniche, dei pianisti di conservatorio, dei complessi da camera e, sull’altro fronte, la musica popolare di vario livello e impegno, includendo il fenomeno collaterale e importantissimo del jazz, c’è un’indubitabile frattura: di solito, chi si occupa dell’una, ignora o snobba l’altra. Difficilmente si cerca di conciliare, di spiegare le due – o tre – entità, confrontandole e assegnando loro un significato storico e un rapporto reciproco. I critici paludati della musica seria non si vogliono occupare di musica leggera, che considerano superficiale e troppo semplice. Le rubriche di critica sulla musica leggera, o musica “pop” come si dice con termine più aggiornato, fanno ridere i seguaci del genere “colto” come uno scherzo o una scimmiottatura, applicazione di pseudo-eruduzione a un oggetto che non lo merita.
Sono due mondi separati, anche se qualcuno dei grandi ha tentato di farli comunicare: Leonard Bernstein, oltre ad essere stato direttore sinfonico di alto livello, ha composto opere di ispirazione moderna e destinate (era americano e pragmatico) a un pubblico non necessariamente colto (West side story). Friedrich Gulda suonava pezzi classici e jazz nello stesso concerto, tentando di abituare il pubblico a un ascolto elastico. Keith Jarrett, bambino-prodigio con studi regolari, passato dalla musica classica a una lunga fase di jazz e poi di musica “fusion” o “jazz-rock”, negli ultimi tempi è tornato allle origini e si è dedicato a incisioni di Bach per tastiera – Variazioni Goldberg e Clavicembalo ben temperato. Composizioni rock di ampio respiro, simili come durata alle opere classiche, sono state ideate, eseguite con successo, incise con grandi vendite, dagli WHO per primi (Tommy – di cui c’è stata una sanguigna versione cinematografica – e Quadrophenia), ma non sono considerate opere serie dai cultori del melodramma, che, anzi, nemmeno le conoscono e piuttosto ascoltano i goffi recitativi dell’Andrea Chenier di Giordano (“Il giuramento tuo sovvengo...”).
In fatto di musica leggera, i gusti sono influenzati dall’appartenenza generazionale e da associazioni mentali emotive, da sollecitazioni umorali e sentimentali connesse con il momento di ascolto di un disco, di un cantante, di una canzone. A me, per esempio, piacciono particolarmente due canzoni certo belle, ma legate a momenti magici dei miei vent’anni: The sound of silence di Simon e Garfunkel (molte canzoni del duo americano sono splendide, anche se troppe volte forzano l’accentazione delle parole, cosa che mi fa imbestialire) e La canzone del sole di Battisti, ma non so disgiungerle dal periodo cui appartengono e non mi rendo conto di quanto mi influenzino ricordi di contorno che, con riflesso pavloviano, stanno nella stessa nicchia emotiva. A volte le preferenze sono curiose. Un uomo di cultura come Zeffirelli, celebrato regista e santone dell’opera teatrale, si degna di ammettere alcuni valori della musica pop: ma chi ha valore per lui sono suoi amici o artisti per i quali ha simpatia dopo averli diretti, come Barbara Streisand o Cher.
Glenn Gould, il sommo Glenn Gould, una delle menti musicali più profonde e dotate del nostro tempo, indirizzava alla musica leggera una critica giustissima: si tratta il più delle volte di un prodotto troppo facile, semplificato e, dal punto di vista armonico, troppo elementare per lui che amava il contrappunto e trovava nientemeno che Mozart un po’debole sotto questo profilo. Richiesto se avesse qualche interprete preferito nell’ambito “pop”, rispondeva sorprendentemente: Petula Clark. Sorpreso sono stato, una sera di tanti anni fa, quando Krilov, violinista russo ora ben noto, allora diciannovenne già avviato al rango di stella, dopo un concertino privato a casa di amici (piccolo, proporzionato, composto e simpatico, aveva uno Stradivari che forse gli era stato concesso in uso da qualche istituto statale russo, gelosamente tenuto tra le gambe durante tutta la cena dopo l’esibizione) rivelò di andare matto per Michael Jackson. Mi sembrava impossibile che un ragazzo appartenente all’Olimpo degli interpreti dei grandi autori del passato, fosse attratto dalle sciocchezze del nevrotico ballerino sbiancato; ma altro era la musica-dovere, altro la musica per i momenti ludici; e i gusti, specialmente in fatto di pop, sono imprevedibili.
La storia della musica, o meglio le storie delle musiche, sono ermeticamente separate: chi scrive di classica rifiuta qualunque intrusione nella leggera, probabilmente con un atteggiamento di sufficienza; chi si interessa o scrive di jazz considera solo quello e per lui anche il blues commerciale e il rock sono una corruzione imperdonabile; chi si occupa di rock considera fuori dal nostro tempo ogni altra forma musicale. Un tentativo di lettura coordinato, per quanto ne so io, non è mai stato fatto, se non per obbligo e il minimo indispensabile, nelle enciclopedie o nei dizionari della musica, su cui peraltro i diversi rami sono affidati a estensori diversi, con competenza specifica nell’uno o nell’altro genere. Manca un racconto dell’uomo che cerchi di spiegare con linguaggio divulgativo il “salto” evoluzionistico del XX secolo nel campo musicale come si è fatto per le altre arti. Anche se il rock è ammesso nei teatri (o, più spesso,ospitato nei campi e nei palazzi sportivi proprio per eccesso di pubblico) come lo sono le installazioni, i video e i neon nei musei e nelle pinacoteche, subisce ugualmente, nel nostro paese (non nei paesi anglosassoni, dove la cultura è più trasversale e mescolata, dove la scuola ha una tradizione più recente e disinvolta) un ostracismo tenace dagli eruditi di professione, a meno che non siano “alternativi”.
È chiaro che oggi la musica cosiddetta seria, quella che continua la tradizione impegnata dei conservatori e delle accademie, è una musica d’elite per pochissimi intellettuali del settore. Anche un ragazzo istruito e attento ai fenomeni culturali difficilmente ascolta Luigi Nono, o Berio, o Cage. Quando un pezzo di questi musicisti che sono stati d’avanguardia è inserito in un concerto, gli spettatori applaudono, ma si vede bene che hanno apprezzato molto di più Schumann e Beethoven. Persino Schönberg è troppo, per quasi tutti, perché, pur grande pensatore musicale e innovatore, ha perduto il contatto con la sensibilità della gente comune, che, tolti uno spettatore o due davvero entusiasti, lo applaude per dovere. La musica “seria” contemporanea è troppo lontana dall’ascoltabilità, occorre disporsi a un’operazione culturale per digerirla. Glenn Gould ama Hindemith come ultimo continuatore della fuga bachiana, ma inserite Hindemith in un concerto e riceverà un’accoglienza distratta, come una necessaria tassa da pagare.
Il jazz è una forma musicale tanto caratterizzata quanto indefinibile, che ha avuto un’evoluzione multidirezionale ma a suo modo coerente, partendo da manifestazioni spontanee dell’universo musicale della gente di colore in America. Il blues, un “canto triste”su base fortemente ritmica sorto verso la fine dell’Ottocento, non ha precedenti rintracciabili nelle tradizioni africane. In questa preistoria del jazz, circondati da un certo mistero dato che non ci sono incisioni a documentare, sono nati il rag – miscela spontanea di folklore negro e musica ballabile bianca – e i canti religiosi: Spiritual, eseguiti in quartetto vocale, e Gospel, per voce singola; hanno preso forma le musiche per banda o piccola orchestra, suonate ai funerali, ma anche – più allegre – nei bar, nei cabaret e nei bordelli di New Orleans, diffusesi poi tra le comunità negre di Chicago e a New York e imitate dai bianchi. Il bolgie-woogie è una melodia blues velocizzata con un semplice sostegno ritmico insistito dalla mano sinistra del piano. Sebbene ormai stemperate e snaturate nel turismo più commerciale, queste tradizioni hanno tuttora una presenza. Chi è stato a New Orleans ha avvertito questo clima, sebbene confuso in un’eccessiva atmosfera di carnevale permanente. Le vie principali sono fitte di piccoli locali a ingresso libero con sottofondo di musica dal vivo puramente jazz, che ha l’apporto degli abitanti cresciuti e allattati con il jazz, ma anche di molti ospiti stranieri – numerosi gli europei – che si trasferiscono in quella capitale della musica per passione. Allineati lungo le vie, come negozi aperti tutta notte, sono bar (con camerieri neri che si muovono fra i tavolini danzando), o locali dedicati al karaoke (con dilettanti di qualità eccellente, per lo più giovanissimi), o agli spogliarelli di ragazze che mentre si liberano degli abiti sui cubi intercalati alle sedie, conversano con gli avventori che sono seduti a bere, in spazi ristrettissimi. Forse un riverbero, un pallido ricordo delle atmosfere di Storyville, il quartiere dei postriboli che era anche il più autentico e vitale, animato dal nascente jazz dovunque. Lì il leggendario pianista e compositore Ferdinand Morton (detto con soprannome irriverente “Jelly Roll”, roll di gelatina, con riferimento alle sue intemperanze amatorie), uno dei maggiori nella New Orleans dell’epoca (ebbe i primi ingaggi a diciassette anni, fece tournées di successo a Los Angeles, S. Francisco e Chicago e ne abbiamo pregevoli incisioni discografiche), suonava come pezzo forte The naked dance mentre sui tavoli le ragazze si proponevano ritmando lo strip-tease collettivo fino a restare solo con le calze nere. Guadagnava tanto facendo il sottofondo degli spettacolini a luci rosse che, non sapendo dove mettere tutti quei soldi e incline all’ostentazione, oltre a vestirsi con ricercata e costosa eleganza e riempirsi di gioielli, si faceva via via incastonare diamanti nei denti.
Ad Harlem, quartiere nero di New York, molto vicino a dove Basquiat faceva il pittore di strada prima del successo, in una piccola chiesa, con i sedili su gradoni di legno, che la fanno rassomigliare a una nostra aula di scienze o chimica di liceo, è attivo un gruppo di cantanti neri che, scendendo i gradini di quel modesto anfiteatro, quando è il loro turno, si alternano durante la messa accompagnati da un vecchio composto nero grigio di capelli seduto a un vero organo Hammond, che sta a fianco dell’altare, in basso e, al termine del canto, se chi ha cantato è stato bravo (o brava), è applaudito da tutti e complimentato prima dall’organista, poi da qualche fedele delle prime file che va a stringergli la mano. La bravura dei solisti nel contesto vero di una funzione religiosa, la semplicità e la naturalezza nell’alternarsi delle parole del pastore nel sobrio rito protestante con canti così autentici e ben eseguiti, la povertà dell’ambiente, la sensazione di profonda e sincera partecipazione dei presenti (fatta eccezione per i pochi turisti), creano una profonda suggestione e danno un’idea dell’atmosfera in cui dovettero formarsi i Gospels e gli Spitituals.
Prendendo corpo in modo organizzato e consapevole ai primi del Novecento, il jazz si è snodato in varianti molteplici fino a propaggini di forte connotato intellettuale cui artisti bianchi – catturati dalla malia di quel ritmo affascinante seppure estraneo alle loro radici – hanno dato un proprio contributo. Dallo stile New Orleans delle prime bande, chiamato poi Dixieland (termine che qualcuno riserva alle imitazioni bianche), alle orchestre swing, al be-bop, al cool, al west coast, al free jazz, al fusion. Il principio che accompagna lo sviluppo del jazz, il tratto comune interrotto solo da qualche grande orchestra che impostava arrangiamenti accurati e classicheggianti benché fedeli alla ritmica jazz, è l’improvvisazione basata sul ritmo. Certamente personaggi come Coltrane o Miles Davies o Cecil Taylor (che ho sentito in una piazza quando era ancora quasi sconosciuto, negli anni sessanta, con indelebile impressione), rappresentano comunque vertici della musica contemporanea, anche se richiedono una preparazione o almeno un’abitudine per essere apprezzati. Il carattere polifonico libero, la ricchezza armonica sono componenti nobili del jazz. Il bello del jazz migliore sono le melodie intrecciate e tutte indipendenti, controllate da un ritmo inflessibile. In un genere che nasceva dalle tradizioni africane ma si è sviluppato in varianti locali diversissime, con una storia così complessa e articolata per quanto recente, tanto che è difficile addirittura assegnargli una definizione (per definire decentemente il jazz ci vogliono molte parole e alcune spiegazioni), ci sono aspetti poliedrici, con la partecipazione di componenti colte oltre che popolari e ci sono stati momenti, negli USA, in cui sembrava avviato a diventare la musica più importante per il pubblico. Tutte le tipologie musicali sono rappresentate: come, per esempio, il Romanticismo pianistico ha avuto il suo versante pirotecnico con Listz e gli Studi Trascendentali, il Jazz ha avuto il virtuosismo ginnico di Art Tatum.
Un tentativo di maggior contatto con un pubblico giovane è stato la formula “fusion”, un jazz con strumenti elettrificati e tratti acquisiti dal rock, in cui anche il Miles Davies ha messo lo zampino: non è detto che sia un’esperienza conclusa, anche se l’ibridazione non piace ai puristi, che l’hanno liquidata con disapprovazione.
In molta parte del jazz, si affaccia un elemento ripetitivo che diverte chi suona ma può annoiare l’ascoltatore. Gli assolo dei diversi strumentisti che si alternano aspettando il loro turno sono la sorpresa, il nocciolo saporito delle esibizioni, ma hanno un lato scolastico, infantile, qualche volta ridicolo. Per un vero appassionato di jazz, tuttavia, la discussione che piace, il quesito che conta è se sia stato più grande alla tromba Louis Armstrong oppure Dizzie Gillespie o se Miles Davies li superi entrambi e le altre questioni sono inutili dispute per non iniziati. Ci sono diversi modi di sentire e comprendere il jazz: una maniera istintiva, primordiale, nostalgica che fa preferire lo stile dei primi complessi di New Orleans (è così che lo suonano attivamente, da dilettanti, Woody Allen e tanti cultori bianchi, con esiti un po’meccanici e lontani dal calore dello stile New Orleans originale); e il modo, più conscio dell’evoluzione culturale, di chi predilige il cool e le propaggini più moderne.
Con una sfumatura ingiustamente dissacratoria e ironica, è stato detto che il jazz è soprattutto per chi lo suona, meno per chi lo ascolta. Ma la qualità delle musiche e dei musicisti è il fatto decisivo per l’ascoltatore.
Io trovo noiosa e ripetitiva parte del bop specialmente per orchestra, ma non mi annoio mai se ascolto rilassato e attento Gerry Mulligan (che mi delizia e mi rasserena, per me musicista tra i massimi trasversalmente ai generi; creatore di stupende polifonie originali, solo per il raffinato e costante controllo appare ad alcuni freddo), Chet Baker e Zoot Sims. Considero fra la grande musica senza riserve quella offerta da Armstrong, sia come cantante sia con la sua cornetta: lasciando stare le ultime canzoni commerciali (che trasforma comunque con la classe, infondendogli umorismo e verve), è commovente e prodigioso sia con la singolare sonorità della voce rauca e sommamente espressiva, sia nella perfezione timbrica e ritmica della tromba, come anche nel personalissimo utilizzo della lingua inglese, buffo e “mangiato”ma sempre musicale, con un esito misteriosamente incisivo; quella di Duke Ellington, che ha creato un mondo sonoro-timbrico tutto suo, ricercato, educato, elegante, raffinato. Considero di altissimo valore assoluto Coltrane, Miles Davies e, fra i pianisti, il fenomenale, stratosferico Cecil Taylor, superiore, secondo me, ai suoi maestri (incluso Telonious Monk) e, su un piano più intellettuale e morbido, che piace anche ai non-cultori del jazz, John Lewis, che è un sofisticato, sensibilissimo, delicato arrangiatore prima che esecutore (Modern Jazz Quartet, e gli si perdonano volentieri i furbeschi adattamenti di qualche composizione di Bach alle sue formule per catturare ammiratori fuori dal consueto ambito di ascoltatori di jazz: credo che tutti siano lo stesso conquistati pur comprendendone la civetteria). L’ascolto di Impressions e di Love supreme (Coltrane) e delle prime versioni discografiche di St. James infirmary e West end blues (Armstrong, con l’incredibile assolo iniziale di tromba) è ogni volta una toccante esperienza spirituale, dove si sente l’anima speciale del jazz migliore: inquietante e complicato Coltrane, lineare e primordiale Armstrong..
La musica che interpreta più da vicino le istanze e i
modi della vita contemporanea è però il rock. Ovviamente, occorre prendere in
considerazione solo una parte molto selezionata, perché, come per ogni prodotto
di largo consumo, la produzione rock ha compreso un’enorme quantità di musica
scadentissima, indegna. I benpensanti devono poi passare sopra alle stravaganze
che dagli anni sessanta fino ad ora hanno caratterizzato le capigliature,
l’abbigliamento, le movenze e gli atteggiamenti delle rock-star (quasi tutti
uomini), la loro inclinazione agli eccessi e al rifiuto delle regole sociali.
La ribellione permea il costume del rock, sebbene la filosofia che costituisce
la base della protesta sia spesso vaga e banale. Se gli artisti sono
anticonformisti ed esagerati, i divi del rock lo sono stati in misura
esponenziale e con estrinsecazioni clamorose. Ad ogni modo, l’esplosione del
rock è corrisposta a un momento di rovesciamento consapevole della scala di
valori, cioè a una rivoluzione vera e propria cui ha dato voce interpretandone
alcune istanze. Se è piuttosto difficile che un giovanissimo provi gusto nella Traviata,
è impossibile che chiunque sopra una certa età, cioè chi non era giovane quando
il rock si è affacciato sulla scena, lo apprezzi. Non per atteggiamento
filisteo o moralistico verso tratti psichedelici o troppo palesemente
iconoclasti, ma proprio per incompatibilità generazionale di linguaggio e incapacità
a condividerne i contenuti.
A metà degli anni cinquanta, sulla base della musica afro-americana più popolare (il rhythm and blues), ma attraverso ibridazione con il country, nella quasi parallela componente bianca, il rock ‘n’ roll (“dondola e rotola”, con evidente allusione sessuale) si affermò in America e subito dopo nel mondo, rivoluzionando la sensibilità musicale di tutti. Ho seguito poco le primissime fasi del rock, quelle dei neri Chuck Berry, Fats Domino, Little Richard e poi – bianchi – Bill Haley (sua la meccanica Rock around the clock), Jerry Lee Lewis, Elvis Presley: ero troppo piccolo e, del resto, nessuno di loro mi piaceva. Mi accorgevo che era una grossa novità e lo associavo ai jeans (blue-jeans, si diceva). C’è, naturalmente, una enorme differenza fra i vari prodotti del rock che rende arduo e prematuro un discorso generale: è logico che nella sua storia ancora viva troviamo tutto, oro, ferro e altro, perché non c’è stata ancora la selezione naturale del tempo a fare un minimo di ordine. Beach Boys, America, Eagles, Chicago, CSNY, Mamas and Papas – inevitabilmente mi attacco a esempi che mi appartengono come generazione – sono orecchiabili, inclini al morbido-languido, diligenti e piacevoli e, riconosciuti come rappresentativi del costume del loro tempo e spesso ispirati, resteranno forse nella storia della musica. Madonna è un prodotto commerciale e pubblicitario ben confezionato a tavolino, di poco peso artistico. Il valore dei rockettari italiani mi sembra addirittura nullo e, escludendo Lucio Battisti, getterei “in un sacco in Senna” – cfr. Francois Villon – tutta la bella compagnia (dischi e concerti, non loro, poverini) dei rockettari italiani attuali, cattivi esempi che giustificano chi ha in dispregio tutto il genere musicale che rappresentano. Il valore e la ricerca artistica di complessi come Who, Pink Floid, Led Zeppelin, Deep Purple,Fletwood Mac, Aerosmith, Frank Zappa (il più autentico – con Lou Reed – dei dissacratori americani, sempre creativo, vitale nelle idee e inventivo nella musica) è su un altro piano. Se confrontiamo due artisti entrambi in fama di trasgressivi, sul filo della perversione, ma entrambi con massimo consenso di pubblico, c’è un abisso di qualità fra Michael Jackson, facile, superficiale e un po’stupido (anche a prescindere dai comportamenti) e Lou Reed, originale, profondo, capace di metafore poetiche e raffinate, con una musicalità elegante e intensa. Il suo disco dedicato ad Andy Warhol, Songs for Drella – Drella era il soprannome del pittore – (nel quale si riunisce di nuovo a John Cale, suo antico compagno nei Velvet Undergaound ) è un commosso elogio funebre fatto di quindici poesie in musica integrate fra loro, da cui emergono, con sentimento vigoroso e struggente, biografia e carattere dell’amico. Come dedica funebre, solo il Lamento per Ignacio Sanchez Mejas, di Garcia Lorca (anche in quel caso un tributo di affetto omosessuale) può essere paragonato per valore poetico a questa piccola opera di Lou Reed. Quali che siano i motivi ispiratori, Lou Reed è musicista e poeta originale e sempre sorprendente. Last great American whale (dalla bellissima raccolta New York) è, fra le innumerevoli canzoni che negli ultimi quaranta anni hanno toccato l’argomento, la migliore: un’allegoria del deterioramento di valori quali solidarietà umana e rispetto della natura che riscatta il soggetto ormai scontato con il lirismo e la forza delle immagini.
Che lo si veda con occhio benevolo o severo, il rock ha espresso una ricerca e un messaggio di libertà e di giustizia, di rottura con i valori tradizionali più retorici, di rifiuto del perbenismo di convenienza. I giovani artisti che hanno impugnato ed espresso queste idee e i loro più stretti seguaci, lo hanno fatto spesso in modi eccessivi e forme stravaganti. Nel paesaggio di mezzi pazzi, eccentrici, drogati che hanno popolato il mondo del rock, i più “corretti”, fra i grandi, sono stati i Beatles, che infatti sono piaciuti anche ai perbenisti: sebbene abbiano fatto largo uso di stupefacenti in privato e non abbiano risparmiato qualche freccia alla società borghese, come nella canzone Piggies, dove descrivono i colletti bianchi come maialini con a fianco le loro “piggy wifes”, avevano almeno il merito di essere sessualmente “regolari” e di non inneggiare esplicitamente alla droga e al sesso sfrenato.
Chi è turbato dai pregiudizi sui musicisti rock a causa delle loro intemperanze, come i rituali di Jimi Hendrix che spaccava tutto sul palco al termine dei concerti, si concentri sui meriti musicali. Di Hendrix sono profondo ammiratore, la sua qualità poetico-musicale mi affascina e mi coinvolge sempre. In molti suoi pezzi, con una voce suggestiva e calda – ma che non si direbbe di un nero – e le distorsioni tanto imitate e mai eguagliate della sua chitarra elettrica, riesce a fondere un ritmo trascinante con melodie dolcissime – ma non melense – in un’armonia acida e peculiare, con risultati espressivi struggenti, agli apici della musica. Il disordine esistenziale per cui si drogava fin sopra gli orecchi e cadeva in eccessi drammatici e disperati che lo hanno fatto morire ventottenne, era comune, nel periodo d’oro del rock. Tanti altri (a cominciare da Brian Jones dei Rolling Stones, annegato ubriaco in piscina, passando per Janis Joplin, grandissima artista, trovata morta per overdose in un motel a 27 anni, che, istruita e di famiglia borghese, ma tra le prime ribelli della sua generazione, aveva a modello le cantanti negre di blues e divorava libri e musica mentre, ragazzina, viveva come una zingara, senza studiare e senza lavarsi, al campus, fino a Jim Morrison, personaggio con pretese e spessore letterario, morto di droga a 28 anni, e Curt Kobaine dei Nirvana, hanno imboccato un analogo sentiero autodistruttivo. (I pittori soprattutto parigini dall’Impressionismo in poi erano sulla stessa linea, con l’attenuante morale di essere disperati anche per la povertà economica. Cambiava il software: per loro era costituito da assenzio e oppio che non erano velenosi come la droga degli anni sessanta.)
Chi non ha nemmeno sfiorato la conoscenza della cultura dei figli dei fiori, difficilmente è comprensivo per certe stramberie protestatarie e infantili condite da droghe e alcool in dosi esponenziali, sbandierate come manifestazione di rifiuto della società del benessere. Le bizzarrie più ingenue (filosofie orientali acquisite sull’onda di un entusiasmo precipitoso, magia nera e altre credulità) sono quasi la regola fra i personaggi di spicco nel rock internazionale degli anni sessanta-settanta, a dimostrazione che la musica occupa un settore speciale del cervello non necessariamente correlato all’intelligenza e alla logica. Tutti sanno del resto che anche il panorama attuale non è immune da epigoni che si raggruppano in rave-party, tra fiumi di birra e altro, con vecchi furgoni dipinti alla maniera degli anni sessanta.
Ma quello che sembra contraddittorio ha le sue ragioni. Chi non ha un certo grado di nevrosi, chi non è in uno stato di malessere esistenziale e psicologico, è meno sollecitato a essere artista, ha minori spinte e motivazioni. Anche musicisti dei secoli passati, grandi nomi della tradizione dorata e blasonata (come anche del jazz), hanno tenuto comportamenti trasgressivi o eccentrici, almeno secondo i canoni della loro epoca: può non piacere che Schubert, morto a 31 anni forse per febbre tifoide (tifo) ma già minato dalla sifilide, fosse luetico come conseguenza dell’abitudine a frequentare postriboli; Schumann, psicotico allucinato: che Beethoven avesse crisi di irascibilità patologica e di nevrosi depressiva grave. Tchaikovskij, sposato con Antonina, frequentava a Mosca le saune dette “pays chaud”, dove a pagamento si era accuditi da assistenti che fornivano prestazioni gay e intrattenne già anziano una lunga relazione con un nipote dello zar. E che dire, su un piano più divertente per un verso e ben più severo per l’altro, della stravaganza di Bach, se è vero che componeva le messe funebri mettendosi alla tastiera con guanti neri?
Mi piacerebbe che un critico di cultura classica, ma attento al jazz e sensibile alla musica popolare del XX secolo e appartenente a una generazione capace di comprenderla appieno per averla vissuta, facesse una storia organica e unitaria, confrontando audacemente i diversi filoni e generi in una trasposizione orizzontale. Il critico deve: non essere scandalizzato dall’acconciatura e dall’abbigliamento dei grandi divi storici del rock (non sarebbe ancora più ridicolo vedere i Doors con il cravattino?); non deridere Louis Armstrong e gli altri storici jazzisti neri perché ignoranti sul piano scolastico; saper giudicare con equilibrio la fruibilità per un giovane d’oggi di un’opera di indubbio valore musicale ma di scarsissima attualità formale come – diciamo – “I Giocatori” di Schostakovic. Un’utopia? Eppure, per le Arti visive e la Letteratura è cosa normale. Io, che non ho sufficiente cultura per addentrarmi nei problemi interpretativi profondi, mi accontento di fare qualche domanda e qualche osservazione suggerite dalle mie personali emozioni in musica.
Più importanti Stravinskij, Prokofiev, Schostakovic (uno per l’altro) o Gershvin (fonte di equivoco nell’ambigua relazione col jazz) o i Beatles (musicalmente dico: perché come fenomeno sociologico non c’è competizione, a tutto favore dei Beatles)? Gli Who possono competere con Haendel, se non è sacrilego mettere un oratorio a confronto con gli elementi psichedelici di Tommy (che, dopo un travaglio inquietante, allegoria della psicanalisi, finisce in una proclamazione di fede, con una musica meravigliosa, che a me ricorda appunto Haendel)? Leonard Cohen è il discendente musicale di Chopin, cioè Chopin farebbe canzoni così se si reincarnasse oggi, visto che, per avere un pubblico, non potrebbe insistere su polacche o barcarole? In una classifica assoluta di tutti i tempi per musicisti di tutti i tipi, che posizione occuperebbe Duke Ellington? E Bob Dylan, che è un fenomeno a parte su una base country, ma certo ha un posto sul podio nella musica contemporanea? (A proposito: quanto LSD sarà stato necessario per comporre le visioni di Blonde on Blonde?). Dylan ha fuso tradizione folk di derivazione europea, blues e rock in un impasto tutto suo, raccogliendo e continuando il ruolo del menestrello. I menestrelli, i cantastorie esistevano fin dai tempi di Omero, forse dalla preistoria. Dei famosi trovatori medioevali non abbiamo, sfortunatamente, documenti sonori. Ma Dylan è certo uno dei migliori cantastorie di tutti i tempi. (Come cantautore suo contemporaneo, solo Leonard Cohen è di superiore statura, sul versante lirico-intimistico, con un pubblico quindi più ristretto.)
Crann Unn è il miglior disco dei Clannad, che riprendono i motivi della tradizione celtico-irlandese come prima di loro hanno fatto Dvorak, Brahms e Listz con i motivi popolari dei loro paesi nelle Danze Slave, Danze Ungheresi e Rapsodie Ungheresi. Chi ha fatto meglio?
Ancora: chi è più musicalmente ammirevole tra due “freddi”(secondo il concetto comune) virtuosi del loro strumento come Paganini e Oscar Peterson?
La musica di Bach è per mille ragioni straordinaria, frutto di un genio enorme. Ma un pregio collaterale curioso è che resta pienamente emozionante, “viene bene” comunque sia suonata: la si esegua sul pianoforte, sul clavicembalo o con l’armonica a bocca o sia cantata dalle voci intrecciate degli Swingle Singers o la si fischietti, è subito perfettamente adattata. C’è un equivalente moderno almeno per questo aspetto? (Forse alcune canzoni dei Beatles, pur con la riserva di un respiro troppo corto, il carattere di uno sforzo anaerobico, una genialità di troppo breve durata).
Monteverdi, Purcel, Haendel, Haydn che sa esprimere gioia come quasi nessun altro, Schubert la cui vita è stata spezzata quando cominciava a fare sul serio, Brahms che usa strutture consolidate da altri, ma ha aperture e frasi musicali da puro godimento dello spirito, sono fra i grandi creatori di musica, qualsiasi epoca consideriamo. Ma Beethoven? La meravigliosa astrazione delle ultime due sonate per piano e dei quartetti dal 127 in poi, sono un punto inarrivabile per intensità, sintesi e innovazione sostanziale. Dobbiamo concludere che Beethoven è il più grande di tutti i tempi? (Qualunque musica anche del secolo successivo sembra antiquata dopo questi immensi capolavori che stravolgono la msica). O il più grande è Bach, che muove l’animo intrecciando e sovrapponendo melodie supreme con perfezione matematica, così toccanti da sembrare celesti anche a un miscredente? O Chopin, che pur limitato al pianoforte, comunica il massimo di intensità sentimentale con il massimo di libertà e di fantasia e piace senza rivali a chi ha dilatata la sensibilità lirica? O è Mozart che, pur ancorato ai modi rococò, è quello con l’inventiva più facile? A lui spetta forse la palma almeno nella specialità (se facciamo una classifica per categorie) di mettere le parole in musica (antica, misteriosa invenzione, indecifrabile magia dell’uomo per dare più forza al sentimento). Ecco, Mozart è forse superficiale e di maniera in gran parte della produzione, escludendo qualche adagio celestiale dei concerti per piano, le ultime profonde sinfonie, qualche sonata, qualche quartetto, però con le opere italiane (aiutato da un librettista degno) e con Il Flauto magico (dove si dimostra genio per motivi opposti, perché riesce a dare forza e significato a una favola puerile piuttosto inconsistente), raggiunge livelli altissimi. Nella musica la nostra documentazione è molto più recente che nella letteratura. Ma da quando abbiamo documenti musicali, Mozart è stato al vertice della piramide per la “sezione” parole + musica, E il suo talento fenomenale ma dispersivo, sprecone, incline all’infantilismo gratuito, contenendo le proprie tendenze prometeiche con il vincolo della trama, nelle opere ha dato il meglio.
Francesco Dallera 2006 |