Gianfranco Testagrossa pittore

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Gianfranco Testagrossa è un pittore con aspetto di perenne ragazzo, modi vivaci e linguaggio spigliato del milanese simpatico e abbigliamento da pittore così caratteristico (quasi una divisa), da farsi riconoscere per strada come tale. Tuttavia, pittore è non solo nell’abbigliamento: da quando lo vedo alle mostre milanesi, è sempre stato uno dei miei pochi preferiti (a prescindere dalle quotazioni e dalla notorietà), rappresentativo della pittura contemporanea che mi appaga e piace. Come trovo giusto e quasi inevitabile per chi dipinge oggi al passo con l’epoca, è a cavallo tra figurativo e informale, oscillando ora di qua ora di là dal confine, secondo l’umore, l’ispirazione e il momento. È la soluzione più adeguata ai tempi: esprime le inquietudini del mondo di oggi, il superamento della figurazione come riproduzione, ma anche il ritorno alle figure come nostalgia, come sentimento legato a un’abitudine, a una tradizione, a una cultura stratificata difficile da abbandonare. Al primo impatto sono sempre colpito dall’aspetto grafico: è immediata l’impressione di un grandissimo disegnatore, che sa di esserlo, ma non travalica in virtuosismi inutili, contiene anzi il segno in rigorosi limiti funzionali al suo progetto ideativo. Il disegno inciso si combina, nelle figure, con un modellato bellissimo, memore di quello rinascimentale e, riferendoci ad esempi più vicini, a quello di Modigliani, e questo accostamento fra suggestione di un graffito portentoso e felice e padronanza dello sfumato, è una qualità specifica di Testagrossa. Il colore ha l’aspetto di un intonaco affrescato e patinato e trasmette l’illusione di lieve usura e attenuazione dei toni per azione del tempo, mentre questo effetto in realtà è frutto di un delicato lavorio di abrasione da parte dell’autore, con vernici finali stabilizzanti che contribuiscono al risultato. Per ottenere queste fascinose tavole, agli inizi, Testagrossa faceva una base spessa di vero muro su legno, che poi trattava e dipingeva con la tecnica dell’affresco. Ora, dopo un progressivo affinamento, sintetizza questo lavoro in un sottile strato plastico su masonite, che conserva tutto il carattere materico delle prime opere in una soluzione infinitamente più pratica: leggera, resistente, niente affatto fragile, e con tutto il fascino intatto – sapore antico nella materia, ma attualissimo nei contenuti e nella forma – che avevano le opere di venti anni fa. I soggetti sono (in una stilizzazione che evoca immagini primordiali) figure umane, cavalli, archetipi di tori in corsa, su sfondi di tramonti infuocati, pesci su sfondi azzurri o verde acqua graffiati a comporre immagini con risvolti misteriosi, come – ricorrente – una specie di ermafrodito simbolico, che vuole essere una citazione, credo, della psicanalisi, che ci ha insegnato come in ciascuno convivano, in misura diversa e più o meno armonizzati, l’elemento maschile e quello femminile. Un retaggio, questo, che sembra consono alla sua particolare sensibilità. Opere recenti, del tutto informali, tentano un ritorno ancor più esplicito ai segni primitivi, ai primordi della figurazione. La ricerca e l’interpretazione delle prime forme d’arte, è argomento che mi tocca: sono stato sempre emozionato dalle caverne pirenaiche di Altamira, Niaux e Lascaux e la pittura di Testagrossa ha più di un’analogia con la pittura rupestre.

Testagrossa, che insiste molto sui significati simbolici delle sue rappresentazioni, propone, con i titoli, un tentativo di ulteriore chiarimento delle sue prove. Ma sui titoli non sono d’accordo, di solito rovinano il fascino di un’opera visiva invece di esaltarla o chiarirla: molti pittori di oggi, nello sforzo di illuminare e rendere più comprensibile il loro prodotto, cadono nell’ingenuità di un eccesso concettuale con titoli roboanti, retorici, inadeguati. Anche artisti consacrati e celebrati dalla storia sono finiti in questa trappola – la speranza di risolvere, con l’ausilio delle parole, ambiguità ed ermetismo impliciti nelle opere contemporanee – ottenendo l’effetto controproducente di impoverirne il fascino arcano. Solo Klee e, meno, De Chirico e il fratello Savinio, con l’espediente dell’ironia intelligente, hanno saputo rendere accettabili, o addirittura utili, titoli pretenziosi. Un discorso a parte si deve fare per Klimt, che sui titoli fondava le complesse simbologie e allegorie della sua arte, colta e ispirata. Altrimenti, meglio una piatta e sintetica descrizione come quelle di Picasso, Braque o Matisse, una semplice identificazione del quadro ("Homme au chapeu", "Nature mort au poir vert", o, al massimo, "Uomo appoggiato a un tavolo"), o niente del tutto. Sui titoli o su altro, a Testagrossa non cercate, però, di dare consigli: è permaloso, permalosissimo, lo fareste arrabbiare inutilmente, lo sentireste gridare.

Descrivere i quadri con le parole è superfluo e vano; ma è una tentazione. Di Testagrossa è peculiare l’equilibrio fra stile grafico superbo (come disegnatore è straordinario, la sua sicurezza del tratto è di qualità rarissima e, come ho detto, mai scivola nel corrivo, nell’illustrativo o nel facile) e colorismo raffinato, maturo, tonale ma deciso e forte, con gusto sottile per l’antichizzato, che ottiene lavorando la superficie nello spessore e patinandola con mezzi misteriosi.

Le cornici ideali per i suoi dipinti sono, per lo più, listelli magri, possibilmente vecchi o invecchiati, montati a filo su un telaio, che non schiaccino la pittura e non la disturbino con un’apparenza troppo nuova o con dimensioni e forme prevaricanti. I disegni su carta decisamente astratti possono invece, se su carta di piccolo formato, essere amplificati con larghi passepartout, in tonalità, magari in sovrapposizione bicolore, per dilatare lo spazio ipotetico che si presuppone e indovina intorno ai segni tracciati dall’artista. Eviterei, in ogni caso, cornici lucide o troppo moderne, che l’attualità della sua grafica potrebbe suggerire in un superficiale equivoco.

Visitare lo studio di un pittore è necessario per comprenderlo meglio. Ho l’impressione che Testagrossa porti alle mostre solo i quadri che ritiene più accessibili a tutti, più orecchiabili. La sua produzione è complessa e poliedrica, con esperienze diverse nel tempo, ma tutte coerenti. Ci sono anche sculture molto belle, di terracotta colorata e patinata, con incisioni e pitture sulla superficie che appaiono come intarsi, alcune poggianti (sono piccole) su mattoni vecchi raccolti sul greto di fiumi, dunque smussati e levigati dalla corrente, in bella armonia tra piedistallo e pezzo sovrastante.

Fa parte del folclore pseudocritico, sugli opuscoli elogiativi e sugli articoli gigioni delle riviste d’arte di versante frivolo-divulgativo, dire che lo studio di un pittore si presenta in un simpatico disordine. Visitate, però, quello di Testagrossa e lo troverete speciale: intanto per bellezza e numero dei lavori appesi o appoggiati nelle varie stanze che si intrecciano, senza spazi vuoti, catturandovi in un’ansia di guardare; poi perché il disordine qui è controllato ed elegante, non caotico, ma nemmeno lezioso, con l’arredo di qualche mobile ricercato, in una casualità autentica e naturale, in un affollamento gradito che non diventa confusione fastidiosa, come se l’infinità di quadri, sculture, disegni, secchielli pieni di gesso, pennelli, carte, supporti, tavoli piacevolmente ingombri, piani d’appoggio occupati, poltroncine, armadi, avessero trovato da soli il loro posto più adatto, con disinvoltura piuttosto che per obbligo sociale e disposizione convenuta. Dovete solo avere una precauzione: evitate di contraddirlo, perché rischiate di essere investito dalle sue veementi reazioni verbali, che vi prenderete anche se capisce male un complimento o non gli piace il modo in cui esprimete un elogio. Limitatevi ad ammirare e cercate di portargli vi a quadri a buon prezzo, approvando i suoi commenti con il capo, parlando pochissimo.

 


Francesco Dallera

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