Gianfranco Testagrossa pittore III cap.

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Ancora qualche dettaglio..


I cavalli di Testagrossa hanno gambe umanizzate; grosse ma slanciate alle caviglie, eleganti come quelle femminili. Un ibrido fra gambe cavalline e gambe di donna. Il polpaccio e la coscia hanno l’attrazione della donna formosa, in un camuffamento animale. Così anche i rotondi e grandi glutei. In questa chiave inconsciamente metaforica si deve guardare lo scalpitare e l’impennarsi dei cavalli nella battaglia che si rinnova in tanti quadri. Se invece degli zoccoli equini avessero scarpine con tacco a spillo, sarebbero ballerine di Can-Can. Lo dico senza ironia, le immagini di simbologia involontaria nei dipinti di artisti a tutti i livelli sono frequentissime, se si cercano. Cavalli tutti senza coda. La Battaglia di S. Romano di Paolo Uccello è un riferimento (immagino consapevole) della sua ispirazione, non solo per la forma e gli atteggiamenti dei cavalli, ma anche per le aste dritte e sincronizzate impugnate dai cavalieri. Da un episodio celebrativo ben preciso per il pittore proto-rinascimentale, Testagrossa ha tratto un pretesto allegorico di battaglie primordiali dell’uomo, nel suo desiderio poetico di ripercorrere a ritroso il cammino storico, preistorico, evolutivo della nostra specie. In diversi quadri sono rappresentati pesci snelli, disegnati benissimo, con un solo tratto deciso. Rappresentano forse un ritorno allo stadio evolutivo della vita acquatica, o un generico volgersi all’armonia della natura. I pesci sono dipinti a colori o tracciati con una strisciata di oro o argento, hanno comunque sempre occhi perfettamente circolari, smaltati di azzurro, come gioielli incastonati, oggetti preziosi. Altre volte i pesci si identificano con occhi integrati in teste umane, sono pesci ma sono anche occhi, ambigui osservatori delle scene dipinte, ai margini di una battaglia o di una caccia o sulla riva dell’oceano. In certe altre visioni, accanto ai pesci, nuotano uomini, compagni di avventura.

Non sono i soggetti in sé, è la resa poetica a trasformare in Arte un’immagine. Certo, i cavalli alati, i Minotauri, Centauri, Unicorni di Testagrossa hanno il soffio della magia, rendono il mito infantile credibile. I suoi guerrieri primitivi, cavalli, tori, cacciatori hanno il fremito di figure antiche rivissute da un artista che usa le tecniche e le esperienze di ieri e di oggi, il gesso, l’affresco adattato al supporto e il graffito, la tavola di masonite e l’acrilico, la carta e il cartoncino di qualità ricercata, il collage e un personale decoupage con il bisturi di notevole suggestione. Non mancano, fra i soggetti, le Sirene e i Tritoni, che hanno sempre un invincibile fascino poetico per chi ama il mare e il mito.

Gianfranco Testagrossa è versatile: lui, che ha così care le sue figure tradizionali, il suo mondo mitologico sentimentale, cammina con disinvoltura e incisività anche al di là della figurazione riconoscibile. Gli affascinanti dipinti e disegni degli anni settanta già comprendevano un doppio filone, quello più figurativo e quello più segnico, astratto-informale con riferimenti vaghi a ricordi di figurazione. Nelle ultime opere su carta (carta "paglia", quella gialla da macellaio, oppure carta da computer perforata), ma anche in diversi recenti acrilici su tavola, affiancandoli a soggetti classici, che continua in parallelo, si dedica all’astrazione pura, con profili di assoluta energia, da puro disegnatore, secondo un’ispirazione movimentata e lirica, che sembra (lui stesso lo suggerisce) ricercare il percorso a ritroso dei primordi della scrittura e della rappresentazione visiva. Le curve e le linee rette non suggeriscono geometrie ma segni propulsivi, allusivi di figurazioni oniriche di bellezza archetipica. Sono animali primitivi, dinosauri bambini, esseri cavernicoli organici, soggetti bifronti come Giano, forse evocativi dell’Età dell’Oro e altri simboli affidati alla fantasia interpretativa di chi li guarda. Testagrossa fonde con talento sempre vitale lo spontaneismo e la vitalità istintiva tipica dell’arte contemporanea, con l’equilibrio della tradizione: non è mai scomposto anche quando ricerca sottili asimmetrie. Entrare nel suo studio, benissimo arredato, in modo apparentemente casuale, pieno di cose varie oltre che di suoi dipinti, disegni, sculture, incisioni, decoupages, bottiglie ricoperte da figure mitologiche come vasi greci, appesi e appoggiati in una specie di euritmico horror vacui, è un grande piacere, non può lasciare indifferente un amante dell’Arte, fa sentire la grandezza del personaggio, induce a riverenza.

Non considerate i titoli, inutili o pretenziosi (Frescograffito, Armonia, Natura, Atemporale sono ricorrenti scritte in corsivo sul retro delle tavole): come per molti pittori di oggi, il tentativo di spiegare col titolo il significato del dipinto e il rapporto con il motivo ispiratore prosaicizza la poesia. Testagrossa si giustifica dicendo che il titolo viene richiesto dall’osservatore, dal fruitore dell’opera, che lui ne farebbe a meno; e si può riconoscere che in alcuni casi sia un vero aiuto alla comprensione dello spunto alla base dell’opera. Come cattivo titolatore, comunque, è in buona compagnia: Futuristi, Spazialisti, Transavanguardia, Bad Painting, Arte Povera hanno fatto il possibile per dare titoli ridicoli alle opere. Il vizio è particolarmente accentuato e frequente fra gli Italiani, che sembrano avere particolare attaccamento alla retorica in genere. Basta non tenerne conto. Guardare e non leggere il retro

Gianfranco Testagrossa è una curiosa e ammirevole combinazione di mente lucidissima e visionaria: sensibile, idealista, non accetta le brutture del mondo e pensa di avere una valvola di uscita solo con la creazione artistica. La sua fiducia disperata nella creatività come catarsi dalle imposture e dalle ruffianerie del contesto sociale e umano è quello che lo salva e lo fa vivere, pur fra le mille difficoltà pratiche che lo attanagliano. Però, ostinatamente rifiuta di considerare quei compromessi, comuni ormai nel mondo commerciale, che potrebbero favorirgli il successo pubblico e risolvergli alcuni problemi, ma che, secondo lui, rischiano di limitare o sconvolgere la purezza della sua ispirazione. Trovare individualmente gli estimatori e i compratori gli è naturalmente faticoso, ma non vuole sentir parlare di televendite e sui mercanti e sui critici è molto cauto, li guarda con sospetto, sapendo quanto sia inquinata e interessata la critica nella sua parte più influente. I pittori cui si riferisce come esempi etici sono Cèzanne, Modigliani, Van Gogh, Gauguin, che, o per la fortuna di avere mezzi propri o per scelta eroica, nella rinuncia o nella stravaganza, o sul filo della schizofrenia peggiorata dall’incomprensione, si sono ritratti dalle finzioni che potevano turbare il loro sogno artistico. Di loro, senza enfasi, in un appassionato, sincero sentimento missionario, si ritiene solenne continuatore almeno sul piano morale. Conoscendolo, non si può che esserne commossi e condividere le sue speranze. Per la qualità della sua arte, personalmente le considero del tutto giustificate.

 


Francesco Dallera

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