Vampiri, versione del medico

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In un clima di revival sull’argomento, qualche anno fa, ho avuto, nella mia dimensione provinciale, una piccola parte: mi è stata proposta una conferenza nella quale discutere il versante medico del problema, in funzione dell’idea, spesso confusamente serpeggiante, che il vampirismo fosse una malattia. Cercare motivazioni mediche alla credenza dei vampiri come ci è stata tramandata, è certamente una forzatura, un artificio, ma ha il tono di un’operazione culturale e mi ci sono subito calato volentieri: utilizzare le proprie cognizioni specifiche per un’interpretazione correlazionale su fatti e personaggi storici o del folklore, solletica l’orgoglio di un medico, facendolo sentire insostituibile.

La superstizione dei vampiri si allaccia a credenze che percorrevano l’Europa di substrato celtico, germanico, slavo, su demoni, spiriti di defunti, morti viventi. Ai vampiri succhiatori di sangue si prestava fede nell’Europa del Nord e nell’Europa orientale, dai Balcani alla Russia, e in ampie aree dell’Asia. Ma in regioni rurali ipoevolute del mondo slavo, la superstizione non è perduta nemmeno ai nostri giorni. Defunti soprattutto per morte violenta, come se si ribellassero a un destino troppo brusco, potevano, raggiunti dal loro spirito, alzarsi di notte dalle tombe e, succhiando sangue ai viventi, trarre da questi un’immortalità parziale, notturna. Visti nella bara, avevano gli occhi aperti, mentre la barba e le unghie continuavano a crescere. Potevano essere tenuti lontani dall’aglio e dal crocifisso e questa bizzarra associazione di sacro e profano (profano addirittura ortofrutticolo) è significativa dell’assurdità di certe credenze popolari, la cui irrazionalità sfiora il comico ricercato, e - bisogna ammettere - ha una sua puerile ingegnosità. Per interrompere definitivamente la vita di un vampiro, si doveva trafiggerlo con un paletto acuminato, meglio se di frassino, all’altezza del cuore. Questa consuetudine barbarica fu esercitata in Inghilterra sul corpo dei morti suicidi (particolarmente indiziati come potenziali vampiri) fino al 1834, quando fu posta fuori legge da una disposizione del Re.

Con questa leggenda si intreccia il personaggio di Vlad Tepes (Tepes significa "Impalatore"), signore della Transilvania nel XV secolo, noto a noi con l’etichetta di vampiro probabilmente per un equivoco linguistico: Vlad fu chiamato Dracula (figlio del demonio) per la sua crudeltà, ma in quelle regioni il termine indica anche il vampiro; così, un attributo metaforicamente espressivo del male, assume alle nostre orecchie, anche per le successive incrostazioni letterarie, il più specifico significato di succhiatore di sangue. Vlad visse nei Carpazi, fra la Transilvania e la Valacchia, area geografica che fu sempre fucina di superstizioni straordinarie, dove, esercitando la sua sanguinaria tirannia, fece la sua parte per alimentarle e rinforzarle. Il castello di Bran, nelle vicinanze di Brasov, benissimo conservato (o restaurato) ha le caratteristiche, l’aspetto, l’età e l’ubicazione per essere il miglior candidato alla dignità di abitazione di Dracula ed è meta di gite organizzate in autobus.

A dimostrazione che personaggi o avvenimenti possono essere presentati in modi diametralmente opposti, Vlad - principe del male, diavolo - nei decenni passati fu elevato da Ciausescu al rango di eroe nazionale e, ancor prima, fu a lungo considerato campione della Cristianità, perché grazie al vigore, alla ferocia, al coraggio che lo distinguevano con i nemici, fu paladino e del suo paese e della sua religione contro i confinanti Turchi.

Ma personaggi o eventi, reali o immaginari, o anche, come è nel nostro caso, argomenti di superstizione, sono destinati al grigiore della cronaca o all’oblio, se non li innalza e rende memorabili l’elaborazione poetica (che cosa sarebbe Ulisse senza Omero?). Così, la letteratura prima e il cinema poi, hanno esaltato il carattere simbolico e dato tratti indimenticabili a Dracula, ai Vampiri e a quanto vi è di connesso. Nell’Ottocento la fioritura di opere su demoni e vampiri, soggetti aderenti alla sensibilità romantica, fu ricca. Molti grandi ne scrissero: Byron con sua moglie e tutta la sua cerchia, Merimee, Hoffman, Theofile Gautier (La Morte amorosa), Baudlaire, che ha due poesie nei Fleurs du mal con i vampiri nel titolo.

Però il romanzo che diede l’impronta a tutta la vampirologia moderna, è il Dracula di Bram Stoker, pubblicato a fine Ottocento. Stoker, irlandese, ispirandosi, per l’ambientazione, ai luoghi del conte Vlad, descrive un aristocratico della Transilvania dai connotati psicologici carichi di fascino sentimentale: il protagonista compie un viaggio in Gran Bretagna ispirato da una ragazza in cui gli sembra di riconoscere una donna amata qualche secolo prima, nella sua vita di quasi immortale; una suggestione, questa, un richiamo nostalgico al passato, cui forse vorremmo cedere tutti, se potessimo vivere così a lungo (magari senza essere vampiri).

Dalla storia che ne nasce, attinse pari pari il cinema. Dopo il primo film –Nosferatu ("non-morto") – del 1922 (muto, regista Murnau), arrivò nel ’31 il più noto "Dracula", che diede inizio alla carriera di vampiro cinematografico di Bela Lugosi, attore in questo ruolo per molte altre pellicole successive, tanto compiaciuto della parte da farsi intervistare preferibilmente disteso in una bara e – ultima volontà – farsi seppellire abbigliato da vampiro. Attraverso altri cento, senza dimenticare l’ironico e inventivo Per favore non mordermi sul collo (1967), di Polansky, si è giunti a Nosferatu, il principe della notte, di Werner Herzog, con Klaus Kinsky ottimo vampiro distaccato e stanco e la Adjani sua pallida vittima (1979). Tra i film di una certa risonanza, almeno quindici, immessi negli anni recenti nei circuiti della grande diffusione, il più atteso e pubblicizzato è stato quello di F.F.Coppola (1992), nel quale è esplicitamente messo in risalto il carattere erotico-sessuale del gesto vampiresco, sotteso da tutta la letteratura precedente (se è vero che le vittime sono giovani donne, deve significare qualcosa), mai però apertamente espresso. L’ambiguità – di stampo romantico e di radice antica – fra amore e morte, si sposa con le acquisizioni della psicanalisi e della psicologia moderna, oltre che con la necessità oggi irrinunciabile all’erotismo come componente del successo commerciale di un film.

Si può presumere che la letteratura abbia influenzato in misura decisiva l’iconografia del vampiro pervenuta a noi, come effetto diretto della fantasia e dell’inventiva degli autori. Polidori, che nel 1816 scrisse tra i primi un’opera sul Vampiro, ne ricalcò l’aspetto su quello di Lord Byron, del quale era amico e medico curante. Anche Stoker, il quale pure – fatto curioso – era medico, dipinse la sua figura del conte Dracula sul modello fisico di Henry Irving, attore di teatro, divo del suo tempo, di cui Stoker era agente e segretario di lusso, incaricato di tenergli la corrispondenza con gli ammiratori e le ammiratrici. Forse, in entrambi i casi, la rappresentazione del personaggio aveva il senso di una burla, di una rivalsa ironica sull’amico-tiranno. Certo, l’immagine che ne emerge ha ragioni casuali e personali: può darsi che si sarebbe imposta la figura di un vampiro piccolo e grassoccio, anziché lungo e allampanato, se tale fosse stato il datore di lavoro di Stoker.

Tornando però al proposito di individuare eventuali patologie in relazione con l’immagine e le caratteristiche dei vampiri, come sono arrivate a noi, si ha motivo di pensare che ad averne influenzato la rappresentazione possano essere le porfirie. Porfirie sono malattie che hanno in comune errori nella costruzione biochimica dell’eme, molecola che partecipa alla formazione di sostanze complesse, importanti e quantitativamente rilevanti, come l’emoglobina, cui si deve il trasporto di ossigeno nei globuli rossi, o i citocromi, enzimi fondamentali nella respirazione cellulare. Un difetto nella sintesi determina accumulo di prodotti intermedi tossici (porfirine) in diversi tessuti: fegato, midollo emopoietico, cute. C’è un ventaglio di possibilità molto ampio, da forme senza conseguenze, diagnosticabili solo con esami di laboratorio, a forme che compromettono precocemente la condizione fisica generale. La tossicità sulla pelle si manifesta solo se vi è contemporaneamente esposizione solare, perché la luce, specialmente di lunghezza d’onda intorno a 400 nm (al limite della visibilità) attiva e rende dannosa la porfirina depositata sulla cute. Ne derivano, se la malattia non è curata, vesciche dolorose, cicatrici e, raramente, mutilazioni progressive e deformazioni delle dita, delle orecchie, del naso. L’intolleranza al sole può aver favorito nei secoli passati, in persone affette, abitudini notturne che, associate al pallore (indotto dall’anemia intrinseca alla malattia, combinata con l’effetto della fuga dal sole, che aggiunge pallore al pallore) e alla magrezza, può aver eccitato la fantasia popolare nella direzione della leggenda. Ma un’altra caratteristica può essere stata ancora più decisiva: in alcune varianti di porfiria, i denti hanno una colorazione tendente al rosso. Si può immaginare che un sorriso simile, senza illuminazione elettrica, alla luce lunare, in regioni ed epoche superstiziose, abbia contribuito a corroborare la credulità nei vampiri.

Invece, non mi sembra si debba accettare alcun parallelo fra cura delle porfirie ed alimentazione dei vampiri: anche nei tipi di porfiria con anemia, succhiare sangue non aiuterebbe in nessun modo. Piuttosto, l’aura di magico e di rituale che ha sempre circondato il sangue, ha forse generato, nell’immaginario popolare, l’idea che possa tenere in vita i vampiri con il potere di un principio vitale. Significato simile devono avere aberrazioni episodiche come quella della contessa Bathory, citata in un film di Borotcwick e realmente vissuta, che sgozzava fanciulle reclutate nelle campagne vicine, per bagnarsi nel loro sangue (versione moderna di una simile smisurata fiducia nel sangue, che ora appare incredibile ed è stata drammaticamente interrotta per le consapevolezze sulle epatiti e sull’AIDS, l’insensata e tanto pericolosa leggerezza, trascinata da qualche medico fino a pochi decenni fa, di prescrivere trasfusioni "ricostituenti").

Nel disquisire su queste ipotesi (rapporti con le porfirie o altre malattie), non dobbiamo dimenticare che i vampiri della superstizione non sono mai esistiti, né realmente, perché i morti non risuscitano, né – come avveniva per le streghe – per autosuggestione di qualche vivente che si calasse nei panni di vampiro: sebbene un servizio televisivo, abbia presentato uno spagnolo che si reca nei macelli pubblici per bere calici di sangue bovino, convinto di rigenerarsi, non risulta che anche la paranoia più spinta abbia dato impulso a succhiatori di sangue umano, come altre volte invece persuade persone di essere maghi, veggenti, o comunicatori con l’aldilà. L’aspetto patofisiologico, l’essenza del meccanismo e il significato dei sintomi nelle porfirie, sono acquisizioni recenti: inutile attribuire all’intuito del popolino, conoscenze e acume che, per i tempi, non poteva avere. Una rozza e primitiva suggestione esercitata dal sangue, piuttosto che effetti curativi indovinati sulla porfiria, sono il semplice ingrediente delle abitudini attribuite ai vampiri. Nemmeno l’aglio, a dispetto di quanto si è a volte argomentato, con forzose inesattezze, in articoli sul tema, ha proprietà mediche correlabili con l’allontanamento dei vampiri. Forse – mi piace pensare – qualche scettico, qualcuno che odiava l’alito agliato, ha escogitato un giorno di perfezionare la credenza introducendo il concetto che all’aglio nemmeno un vampiro possa resistere: una bella dimostrazione di sense of humour che si perde nella notte dei tempi, un colpo di genio di un umorista per sempre anonimo.

 


Francesco Dallera

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