Very British

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C’è un connotato che percorre il gusto inglese, difficile da definire ma ben riconoscibile per chi lo apprezza, che riguarda tutte le manifestazioni espressive e artistiche e incomincia a dar segni di sé molti secoli addietro. Non mi riferisco tanto ai modi un po’snobistici e quasi scontati di un certo umorismo, sul genere di J.K.Jerome o, con altre ambizioni, di O.Wilde – uno stile voluto e piuttosto divertente, però, vorrei dire senza offesa, un po’stereotipato – ma piuttosto a caratteristiche più sottili e sfumate, le cui prime tracce si trovano, in ambito letterario, nei racconti di Chaucer. In musica è rintracciabile negli autori del periodo  elisabettiano, Bird e Dowland, tanto cari a Glenn Gould, e poi nel grandissimo Purcell e coinvolge persino Händel, che, tedesco, trascorrendo gli ultimi quarant’anni di vita a Londra come fondatore e direttore della Royal Academy of Music, fu contagiato dall’atmosfera inglese, così da trasferire il misterioso tratto britannico nei suoi oratori e nei suoi concerti.

Il "british" è tipico di certi film leggeri, a partire dagli anni sessanta con il regista Richard Lester (Non tutti ce l’hanno) fino ai Monty Pyton, a Un pesce di nome Wanda o, per fare esempi più recenti, Quattro matrimoni e un funerale e Full Monty, e si può definire come un misto di spregiudicatezza disinvolta a volte molto forte, raffinatezza intellettuale applicata al quotidiano e humour "funny peculiar". Anche Kubrick, con il suo cinema niente affatto leggero, è molto british, sebbene il valore assoluto sposti in secondo piano questo aspetto (non è forse assolutamente british L’arancia meccanica, nella struttura e nei dettagli narrativi, inclusa la marcia Pump and circumstance di Elgar, british per conto suo e ancor più british in quella situazione ironica, a sottolineare la visita del ministro al protagonista?).

C’è anche un’estetica visiva britannica: pur avendo tratto da altri movimenti le prime mosse, pittori e scultori inglesi hanno un che di controllato, danno una versione anglosassone-europea di ogni periodo artistico. Lo stile inglese non abbandona mai la compostezza e ha qualcosa di conservatore, eppure è autonomo e spigliato. Penso, limitandomi ai contemporanei, a Moore, a Bacon, a Lucien Freud, ad Auerbach, a Ben Nicholson, a Sutherland: artisti molto diversi tra loro eppure tutti, secondo il mio punto di vista, inconfondibilmente inglesi.

C’è uno stile britannico persino nel diffondere musica nei supermercati: a Londra, in qualunque grande magazzino sentirete musica attuale ben scelta, attraente ed emanata a volume giusto con altoparlanti di classe. Entrate in uno italiano e sarete disturbati da canzonette stupide e inascoltabili distorte da impianti sonori dilettantistici, con amplificatori inadeguati e casse acustiche mal sistemate. Gli inglesi sono stati i primi cultori dell’alta fedeltà nella riproduzione dei suoni e dagli anni sessanta in poi i negozi di dischi e di apparecchi stereofonici, corroborati dalla rivoluzione musicale di quel periodo – Beatles in testa – sono stati un paradiso per gli appassionati.

C’è, infine, uno stile inglese nelle automobili, a tutti comprensibile a colpo d’occhio senza mediazioni culturali, che ora ha ripreso vigore, dopo una parentesi di appannamento dell’industria del Regno Unito. Richiama la solidità originale, a volte quasi goffa, ma piena di sicurezza, dei mobili di fine Seicento e del Settecento inglese, cominciando dal William and Mary e dal Queen Ann, più autonomi e indifferenti alla loro epoca di tutti gli altri mobili europei. L’originalità delle auto inglesi sfiorava spesso la bruttezza (pensiamo alle Rolls) ma era assertiva e si imponeva, magari per il conservatorismo spinto. Le multinazionali che hanno assorbito di recente l’industria automobilistica britannica, fortunatamente, hanno compreso che il successo – di nicchia – sarebbe derivato dal salvataggio non annacquato dei caratteri tipici della tradizione e, pur nell'inevitabile cedimento all'uniformità tecnica di oggi (progetto, motori, sospensioni, componentistica comuni a diverse case automobolistiche), hanno lasciato che le Jaguar somigliassero alle Jaguar di una volta, nell’esterno e, soprattutto, all’interno, nella profusione di pelle di qualità e radica ben lucidata, in una continuità piena di fascino, nelle linee per me molto piacevoli, fuori dalla convenzione e dalle mode, originali fino all’idiosincrasia,  nelle finiture di lusso in stile "vecchia carrozza".

Esempio straordinario di oggetto "british" è stata la Mini di Issigonis, fenomeno sociale, estetico, culturale lungo tutti gli anni sessanta e ben oltre. Ora il nuovo modello BMW la evoca perfettamente senza copiarla, modernizzandola e conservandone gli elementi distintivi, con un tocco di efficienza teutonica: linea aggressiva e funzionale ma di fisionomia inglese (il frontale ricorda la macchina essenziale, il disegno che ne farebbe un bambino, una bocca e due occhi da pesce vorace ma simpatico, si riallaccia ad altre auto inglesissime come la ACE Cobra o le Aston Martin degli anni cinquanta-sessanta), e, all’interno, una cabina superba, personalissima, favolosa. Salite su una Mini e, dopo, ogni altra auto piccola vi sembrerà modesta e priva di mordente estetico.

 


Francesco Dallera

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