Pittori d'Italia | |
|
|
Ma sono soprattutto un cercatore di pittori ancora pressoché ignoti, ho l’ambizione dello scopritore, l’illusione che non mi sarebbe sfuggito, in qualunque epoca, il grande talento se avessi avuto la fortuna di incontrarlo ancora sconosciuto. Fra gli artisti degni di questo nome, però ignorati fuori dal loro ambito, quelli che non hanno ancora saputo o forse voluto inserirsi nei meccanismi di mercato e critica oggi necessari al successo di pubblico, ne cito tre, la cui opera conosco bene perché sono della mia area geografica. Uno è Gianfranco Testagrossa, nato e vissuto a Milano, con l’aspetto del pittore in divisa bohemien. I suoi dipinti oscillano tra il figurativo e l’astratto, anche se a sentire “oscillano” si arrabbia, perché la sua pittura è contraddistinta, secondo lui, da un segno che fa da Confine, con la maiuscola, se mai, tra figura e astrazione, con una dovizia di simbologie cui dà grande importanza: pesci che esprimono mondi primordiali e liberi, sfere (pianeti) – con piccoli occhi stilizzati e di colori smaltati che li fanno diventare volti – figure mitologiche, unicorni, centauri, minotauri, cavalli montati da guerrieri barbarici, grassi nudi femminili sensuali e mai volgari, ermafroditi tracciati di profilo (la cui rappresentazione lo ossessiona spesso). Nelle ultime opere enfatizza la ricerca di forme primigenie, come una ricostruzione dei tentativi di figurazioni ancestrali, qualcosa di antecedente alle pitture rupestri permeato tuttavia dalla cultura e dalla meditazione storica di oggi. Ha una maniera incisa e forte per i profili delle figure, segni da formidabile disegnatore, stile supremo. Patina e graffia la superficie colorata con effetto sempre suggestivo, e ne emerge un ambiguo rapporto tra sfondo e soggetto principale, che fa sembrare ora negativi i positivi ora il contrario, a seconda di come si leggono, uno stimolo all’immaginazione. I colori prevalenti sono rossi caldi spesso tendenti al mattone, più raramente verdi cristallo o azzurri marini raschiati e resi misteriosi, variegati e a volte mescolati e alternati a rosa antichi. Eleganti le opere a inchiostro con pochi accenni di colore o dorature o strisce d’argento. La tecnica dei dipinti, descritta come “affresco-graffito”(una definizione per la verità abbracciata da tanti pittori) consiste in un strato sottile di gesso su masonite (anni fa era un vero intonaco su muro, troppo pesante) inciso con mano perentoria nei contorni (sono splendide linee profonde rette e curve, bianche, tracciate con magica maestria) e dipinto con acrilici poi patinati e antichizzati con espedienti personali. L’incanto grafico e cromatico è costante. Occorre vedere i dipinti: più si guardano più piacciono. Come occorre vedere le sculture, poco descrivibili e piene di messaggi. Sebbene Testagrossa annetta la massima importanza ai simboli, io penso non sia necessario comprenderli per capire le sue opere, che sprigionano bellezza anche senza che gli spunti ispiratori ci siano rivelati. Del resto, anche le grandi opere del Rinascimento erano permeate di simbologie che non comprendiamo, eppure trasmettono vigore e fascino infinito. Spesso, anzi, comprendere troppo l’innesco ispiratore per l’artista lo sminuisce, ne mostra i limiti. Un artista visivo, come un musicista, è capace di tradurre in pittura (o in musica) emozioni fino a commuovere gli altri, ma se spiega in parole quello che ha provato, il più delle volte non è adeguato. Ė poeta dell’immagine o delle note musicali, non della parola. I pittori molto più dei musicisti hanno tendenza a teorizzare impressioni semplici evidenziando solo limitazioni culturali e verbali che le opere con la loro potenza espressiva, vantaggiosamente, non svelano. Per la stessa ragione bisognerebbe arginare la frequente tentazione che hanno molti pittori e impedire loro gli ingenui e goffi titoli concettuali con cui sperano di chiarire il loro travaglio poetico e di far comprendere meglio i loro risultati. Comunque, a parte la mia personale idiosincrasia per i suoi titoli, Testagrossa è un grande pittore e scultore, sempre ispirato e fantasioso, in nessun momento corrivo o indulgente verso il mercato. Ha toni da visionario istruito e ingenuo, ma di un’ingenuità conscia e orgogliosa e le sue teorie sono eloquenti e ricche di contenuto: parlerebbe per ore del suo idealismo artistico con chi sente amico e capace di comprenderlo. Tuttavia è schivo e poco incline a proporsi, a darsi da fare per promuoversi negli ambienti giusti, fieramente modesto con gli estranei, timoroso che iniziative pubblicitarie gli compromettano l’autenticità dell’estro, ha in dispetto chi cede per convenienza alle mode, tiene più di tutto, con immensa sincerità, alla propria genuinità creativa. Anche se desidera, ovviamente, il successo, il pubblico lo interessa solo se è qualificato e da sempre accetta grossi sacrifici, dimenticando gli agi, per conservare la purezza della sua arte in cui crede come in una missione, con sentimento toccante. Stefano Spagnoli è di Parma. Attualmente è assessore alla cultura in Comune. Suo il bel logo, con il camioncino carico di giocattoli, del “Mercante in Fiera”, iniziativa di cui è stato – mi dicono – ideatore e promotore. Dire che conosco benissimo le sue opere è inesatto, perché non ho visto mai le sculture che, nelle riproduzioni, danno l’idea di essere la sua forma espressiva più libera. Rispetto alla maggioranza dei pittori, mi pare su un versante più scettico e autocritico. Pur dotato in esubero di spirito poetico ed estetico, non si prende del tutto sul serio. Non lo conosco personalmente, ho acquistato le sue opere (davvero molte) che mi arredano parte della casa e dello studio, da Giovati, personaggio di grande spessore umano ben noto a Parma, corniciaio eccezionale e gallerista, personalità di simpatia unica. Giovati mi ha fatto da tramite così bene da impedirmi moralmente di scavalcarlo per avere contatti diretti col pittore, cui ho scritto però una lettera per esprimergli la mia ammirazione. Spagnoli è eclettico e varia molto i suoi modi artistici, è inquieto ma con un substrato di gusto così sicuro da essere benissimo riconoscibile a un estimatore. Soggetto frequente sono grandi volti di sapore liberty, sfumati e modellati con eleganza e padronanza pittorica ma con fantasia imprevedibile nei dettagli dell’esecuzione, oli su tavola e acquerelli o tempere su carta, spesso modelli femminili di aspetto quietamente felino (gattesco), con cappellini e abbigliamento belle-epoque. Sceglie tavole vecchie o deformate, carte di recupero da antichi documenti, secondo un gusto che è circolato nell’area di Parma e nel nostro esempio produce risultati pieni di charme, con il senso del casuale raffinato. Un altro soggetto ricorrente è costituito da motivi geometrici colorati in armonia fra loro, vagamente reminiscenti dell’Arte Metafisica, ma – direi senza paura di sacrilegio – più aggraziati e velati di attualità, come una composizione astratta fatta però di oggetti con una precisa solidità, appoggiati in bilico gli uni sugli altri, piatti ma con ombre e luci, che suggeriscono universi estetici personali e alludono, attraverso semplici figure geometriche, a paesaggi fantastici e magici, con timbrica cromatica e luminosità di alba o crepuscolo o tramonto. Usa spesso con libertà e risultati eccellenti il collage o l’assemblaggio. Nei vari dipinti o collages o assemblaggi (di assicelle, corde, oggettini su tavola) si avverte l’influsso o meglio un voluto richiamo di grandi autori, Klee prima di tutti, per l’affinità di sensibilità e la rassomiglianza di risultato poetico, poi Schwitters, Afro e, inevitabili, Picasso e Braque, sempre però come citazioni o spunti elaborati con un proprio senso del bello e, sempre, con trionfante emergenza della sua personalità. Alcuni visi accennano a deformazioni sul tipo di Bacon (l’analogia è remota, ma mi sforzo di far intendere per iscritto una sensazione visiva) e rivelano un’inquietudine d’animo controllata ma intensa che in altri quadri sembra invece placarsi completamente. Diciamo che, in genere, le figure sono più inquiete e talora inquietanti, le rappresentazioni astratte più rilassate e serene. Dai quadri di Spagnoli ricevo quasi sempre un’impressione di opera d’arte di qualità, raramente ho visto sue cose non desiderabili (solo qualche faccione un po’ troppo sgargiante nei colori, disegnato e licenziato dallo Studio in un momento di distrazione). Pur essendo colto e consapevole (ho letto suoi sapidi e intelligenti scritti su argomenti d’arte), pur avendo un consistente ruolo politico che lo potrebbe facilitare, Spagnoli non è entrato in un proficuo giro commerciale e critico come il suo talento meriterebbe. Forse non lo ha voluto, forse il suo carattere non glielo permette; non conoscendolo non posso individuare le ragioni. Certo dimostra rigore morale, indifferenza alle lusinghe del mercato, signorilità incurante del venale, una sorta di raffinato snobismo. Sta di fatto che, quasi a renderle più accessibili a tutti, vende le sue bellissime opere a prezzi bassissimi, il che per me è stata una fortuna, ma per un certo pubblico può essere motivo di confusione. I titoli delle sue opere – miracolo – quando ci sono, sono appropriati, illuminanti, rivelano cultura, discrezione, ironia. Aggiungerei a loro un personaggio che appartiene alla categoria dei veri primitivi nello spirito artistico, sul tipo di un Basquiat milanese, non nero, non drogato, non appartenente a movimenti socio-culturali, non trasgressivo nei comportamenti, claudicante e anziano, ma libero nell’espressione come pochi: Licos (Lino Cosoleto). I suoi dipinti sono improvvisazioni esplosive e travolgenti, fortemente poetiche. Evidente esempio di autodidatta che non ha ricevuto influenze se non quelle inevitabili e inconsce, è brillante, vivace, sicuro nel trasmettere messaggi emotivi. Le televendite non si sono ancora occupate di Testagrossa e Spagnoli, meno che mai di Licos (vergogna per le televendite). I pochi che li hanno avvicinati e ammirati possono sentirsi parte di un’elite, happy few. Naturalmente, spero per i miei pittori che anche in questo mondo mercantile contraffatto in cui l’Arte non è immune dalle più grossolane mistificazioni, abbiano modo di affermarsi al pubblico secondo il loro valore. Diversi fra loro, hanno in comune un pregio fondamentale, che non si può descrivere a parole: uno straordinario esito estetico, il soffio dell’Arte. Certo, mi piacerebbe essere, almeno in questa circostanza, un grande mercante o un danaroso collezionista – Vollard, Kahnweiler, Paul Alexandre o Leo Castelli – per dar loro fama e successo internazionale e vantarmi di averlo fatto; un grande critico – Gombrich, Longhi, Federico Zeri o Kenneth Clark – per sostenerli con argomentazioni più elevate e persuasive e con la forza di un nome autorevole. Il pubblico più sofisticato ed esigente si accorgerebbe di loro e sgomiterebbe per averne qualche opera.
|
|
|
|
Francesco Dallera marzo 2004 |